25 aprile
La politica nelle scuole è più viva che mai: «Si può essere antifascisti anche senza cantare Bella Ciao»
Il dibattito nelle classi che Valditara avrebbe voluto limitare è invece ben presente. Destra e sinistra si confrontano e si scontrano. Ma a unire la maggior parte dei ragazzi è la sensazione di non sentirsi rappresentati
«Non penso si possa dire antifascista un Paese in cui dominano l’odio, il razzismo, le discriminazioni e la disparità di genere». «L’Italia ripudia il fascismo perché è scritto nella Costituzione, ma noi italiani non possiamo definirci un popolo di antifascisti». «Noto che molti dei miei coetanei esclamano frasi ripugnanti come “viva il duce” con il braccio destro teso, poi dicono che è uno scherzo. Con queste immagini in testa, non posso non pensare che la democrazia sia a rischio». A parlare sono Alice, Marta e Cosimo, studenti del quarto anno di un liceo classico di Firenze, la città in cui a febbraio 2023 c’è stata quella che alcuni, come il sindaco del capoluogo toscano Dario Nardella, hanno definito «un’aggressione squadrista intollerabile» degli appartenenti al movimento giovanile di destra, Azione studentesca, ai danni degli allievi del Liceo Michelangiolo, proprio davanti all’ingresso dell’istituto. Alla rissa che aveva acceso il dibattito sulle derive dell’estremismo in tutto il Paese aveva reagito anche la preside di un altro liceo fiorentino, Annalisa Savino del Leonardo da Vinci: «Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti», scriveva la professoressa in una lettera agli allievi. Lettera che il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, definì del tutto impropria: «Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole; se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure».
Eppure, la politicizzazione della scuola che Valditara avrebbe voluto limitare un anno dopo è più viva che mai. Forse perché «vivere significa partecipare», come scriveva Antonio Gramsci nel 1917, e gli studenti non possono fare a meno di vivere gli spazi in cui trascorrono tante ore ogni giorno. E forse anche perché «i fatti preoccupanti a cui assistiamo, non solo in Italia ma anche in Europa e nel mondo, con due guerre che non ci saremmo mai aspettati di affrontare, spingono le persone ad acquisire consapevolezza e a militare. “Mai più guerre, mai più discriminazioni, mai più razzismo”, avevano detto i partigiani nel 1945, dopo avere liberato il Paese», spiega Carlo Ghezzi, vicepresidente vicario dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, quasi ottantenne, a proposito dell’incremento degli iscritti che l’Anpi ha avuto negli ultimi due anni: «Da ogni momento difficile si può uscire meglio o peggio. Dalla crisi del ’29 gli Usa sono venuti fuori con il New Deal, l’Europa col nazismo. Dobbiamo impegnarci per intraprendere la strada migliore: l’adesione di tanti giovani è positiva, dimostra che è difficile restare indifferenti».
Che la politica sia tornata ad animare i luoghi della conoscenza si vede anche dalle migliaia di studenti che riempiono le piazze per chiedere una società a loro misura e una scuola che consideri le loro esigenze. Si scopre nella tenacia di chi manifesta affinché la guerra resti fuori dalle università, si legge nelle parole di Alice, Marta e Cosimo. Ma anche di Irene, Joele, Lorenzo, Olaf, Mattia, Matilde, studenti che dopo aver ascoltato “Bella Ciao”, al termine di un percorso di formazione sulla Memoria dell’Olocausto, hanno dato vita a un dibattito vigoroso tra chi ritiene sia un canto divisivo – che rappresenta le idee di una sola parte politica, la sinistra – e chi, invece, sostiene che tutti dovrebbero intonarlo, visto che è alla base della Repubblica. «“Bella Ciao” ha perso ogni suo valore originario. È diventato un mezzo di propaganda politica, per la superficialità con cui molti se ne servono. Per come la vedo io, si può essere antifascisti anche senza cantarla», sostiene Olaf. «Un canto che ha unito l’Italia contro l’invasore», controbatte Irene. «È diventata il simbolo di una determinata parte politica che spesso la utilizza in maniera poco appropriata o addirittura provocatoria verso chi ha un diverso orientamento», aggiunge Mattia, secondo cui oggi non ha senso neanche più definirsi antifascisti: «Perché il fascismo altro non è che un nome svuotato di significato al quale la sinistra fa ricorso quando deve denigrare i suoi avversari». A quanto racconta Mariagrazia, una delle insegnanti presenti, quello tra gli studenti è stato un confronto vivace, difficile da gestire, che ha spaccato la classe: tra chi teme che gli anticorpi democratici della società stiano soffrendo perché l’antifascismo non è, come dovrebbe, un sentimento comune, sulla cui certezza costruire l’opinione pubblica, e chi ritiene che sia solo una vecchia etichetta che, strumentalizzata dai partiti, ha perso forza.
Ma c’è un dato a unire quasi tutta la classe del liceo fiorentino: la sensazione di non sentirsi rappresentati dai politici in Parlamento. E la percezione che lo scontro tra fazioni contrapposte si stia intensificando: «Penso che tra i ragazzi della mia età ci sia abbastanza ignoranza; ciò fa sì che quasi tutto venga visto come bianco o come nero. Mi spiego: è frequente che chi esprime un’opinione che potrebbe essere vagamente riconducibile al pensiero politico di destra venga accusato di essere fascista. Vale la stessa cosa per chi esprime idee di sinistra e viene definito immediatamente un comunista», sostiene, ad esempio, Matilde. A dimostrazione che l’eredità della Resistenza dev’essere salvata dal logorio del tempo. Prima che sia troppo tardi.