L'Intervista
Il presidente dell'Anac: «Corruzione in aumento, rischiamo il saccheggio»
«La deregulation degli appalti aumenta i costi e danneggia lo Stato». L'allarme di Giuseppe Busia, capo dell'Autorità anticorruzione: «Anche il Pnrr è debito, con la fretta e l'urgenza si svuotano le tasche dei cittadini»
Non è un politico, è un super tecnico del diritto, ma sta diventando il nemico pubblico numero uno dell'attuale governo italiano. Giuseppe Busia, 55 anni, nato in Sardegna, giurista per codice genetico con padre e madre avvocati, secchione per vocazione con laurea a pieni voti a Roma e dottorati in Italia e all'estero, allievo dell'ex presidente della Corte Costituzionale Leopoldo Elia, carrierista per merito, diventato direttore di ministeri e presidente di autorità nazionali ed europee come primo classificato in «concorsi per alte professionalità», dal settembre 2020 è il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac). Nella sua posizione, è la persona più titolata a valutare se l'Italia rischi nuovi saccheggi delle casse pubbliche, come ai tempi di Tangentopoli.
C'è un ritorno prepotente della corruzione, con gravi scandali in molti enti ad ogni latitudine, dalla Sicilia al Piemonte: Genova è solo l'ultimo caso.
«Sui procedimenti in corso non mi pronuncio e vale per tutti la presunzione di non colpevolezza, ma a livello generale devo confermare che, purtroppo, i fenomeni di corruzione si presentano diffusi. Ed è triste sapere che quanto emerge è solo la punta dell'iceberg. La corruzione è un reato nascosto. Il corruttore e il corrotto hanno interesse al silenzio. La vittima è l'intera collettività che non se accorge: se ne rende conto solo quando i servizi non funzionano, l'ospedale chiude o il ponte crolla. È proprio questo che rende centrale il ruolo di autorità come l'Anac».
L'Italia ha problemi di corruzione ormai da decenni: cosa c’è di diverso rispetto al passato?
«Ci sono elementi di maggiore sofisticazione. I soldi nascosti nel puff, le borse piene di contanti ci sono ancora, qualche volta. Ma è sempre più frequente un sistema di utilità e benefici, dall'assunzione alla consulenza, dalla vacanza gratis al favore sessuale, che è più difficile identificare chiaramente come illeciti. Inoltre per i corruttori, ma anche per la criminalità organizzata, è più facile tenere nascosti i pagamenti, ad esempio attraverso i bitcoin o le società offshore».
Per diversi ministri e leader politici, bisogna allentare il sistema dei controlli per non perdere i miliardi del Pnrr.
«Non voglio entrare nel dibattito politico, ma credo che, di fronte a grandi quantità di denaro pubblico da spendere in tempi rapidi, non si debba abbassare la guardia: al contrario, bisogna aumentare la trasparenza, la piena visibilità e controllabilità degli investimenti. È quello che stiamo cercando di fare con la digitalizzazione dei contratti pubblici. Sono in gioco cifre enormi. È doveroso gestirle coniugando rispetto della legalità ed efficienza».
L'Anac e tutte le autorità di controllo vengono invece accusate di rallentare o bloccare i cantieri.
«Ricorrere alle deroghe e alle scorciatoie in nome dell'urgenza dà soltanto un'illusione di risparmiare tempo: in realtà si rischia di pagare di più, di affidarsi a imprese non adeguate e di perdere tempo dopo la gara con varianti o ricorsi. La nostra missione è di aiutare le stazioni appaltanti a realizzare gli investimenti e anche a evitare i contenziosi: gli enti possono attivare un meccanismo gratuito e pubblico di risoluzione preventiva delle controversie, con decisioni che evitano le cause legali e i ritardi. Ne abbiamo emesse a centinaia. L’obiettivo dell'Anac è far selezionare le imprese migliori che fanno bene le opere. Per il Pnrr, non basta aprire i cantieri, bisogna chiuderli entro il 2026: sarebbe opportuno remare tutti nella stessa direzione. Fare presto non è sufficiente: bisogna soprattutto fare bene. Non va dimenticato che i fondi del Pnrr non sono regalati: una parte è prestito, cioè debito italiano, il resto è passivo europeo, che ci tornerà sulle spalle come quota».
Il nuovo codice degli appalti intitolato al ministro Matteo Salvini ha alzato a dismisura le soglie per distribuire soldi pubblici senza gare d'appalto. Le vostre regole stanno diventando marginali?
«Non voglio aprire polemiche politiche, mi limito a un giudizio tecnico. Per lavori fino a cinque milioni, non c'è più bisogno nemmeno di pubblicare un bando o un avviso: si fa la procedura negoziata con cinque o dieci imprese. Se ce n’è un’undicesima interessata e in grado di fare un’offerta migliore, neanche lo viene a sapere».
La deregulation in salsa italica riguarda pure le forniture.
«La soglia per gli acquisti diretti di beni e servizi è più che triplicata: è salita a 140 mila euro. Per tali affidamenti non è più neanche necessario chiedere due preventivi: ci si rivolge a una sola impresa, perché già nota, vicina o amica, e questa il più delle volte tenderà ad alzare i prezzi. In questo modo scompare ogni forma di concorrenza e si rinuncia a premiare le aziende migliori. E ricordiamo che già oggi numericamente oltre il 90 per cento degli appalti sono affidamenti diretti».
Lo Stato rischia di dover pagare due volte la maxidiga foranea di Genova: il consorzio guidato dal colosso Salini-Webuild incasserà una fortuna, che non è neppure quantificabile, ma l'autorità portuale, ora travolta dagli arresti per corruzione, rischia pure di dover risarcire il secondo classificato.
«Per le opere del Pnrr si è stabilito, in nome dell'urgenza, che il lavoro lo fa comunque il primo aggiudicatario. Se i giudici amministrativi poi stabiliscono che meritava di vincere un'altra impresa, questa va risarcita, ma l'appalto non cambia. A Genova l'Anac ha fatto dei rilievi, rimasti ignorati. Poi il Tar ha accolto il ricorso del gruppo concorrente: se il verdetto venisse confermato dal Consiglio di Stato, dunque, lo Stato dovrebbe effettivamente pagare due volte. È uno dei casi in cui la fretta rischia di svuotare le tasche degli italiani».
Ci riassume i vostri rilievi sulla diga?
«I documenti dalla gara d'appalto non erano chiari nell'evidenziare i cosiddetti scenari alternativi, cioè la gestione dei rischi di costruzione. In questo tipo di contratti, in cui il privato si incarica anche di realizzare il progetto, la stazione appaltante deve specificare i possibili problemi, legati ad esempio alle incertezze sulla profondità dei fondali, mentre il costruttore privato deve trovare le soluzioni, assumendo i rischi dell’esecuzione. Così il prezzo è fisso, non ci sono sorprese e varianti. A Genova invece questo è mancato. E alla fine rischia di pagare Pantalone».
Lo stesso gigante delle costruzioni, controllato da azionisti privati che sono riusciti a entrare in società con lo Stato attraverso Cdp, è chiamato dal governo a realizzare anche il leggendario Ponte sullo Stretto. Voi non siete ingegneri o sismologi, perché siete contrari?
«Non entriamo nel merito della scelta delle opere da realizzare. Abbiamo però evidenziato che qui c'è un progetto vecchio di almeno dieci anni, che il governo Monti aveva dichiarato insostenibile per ragioni economiche. Il consorzio privato ha fatto causa chiedendo 700 milioni. Ma ha perso il giudizio di primo grado. A quel punto sarebbe stato più conveniente chiudere la vertenza con una transazione, acquistando per poco il vecchio progetto, per poi metterlo a base di una gara, per migliorarlo e ottenere un’offerta più conveniente. Il nostro era un parere di ausilio all'opera. Invece si è deciso di legarsi non solo a quel consorzio privato, ma anche al suo progetto».
La proposta di abolire l'abuso d'ufficio preoccupa molti magistrati, che temono di perdere un reato-spia non solo di possibili corruzioni, ma anche di favoritismi a imprese mafiose. Lei che ne pensa?
«L'abuso d'ufficio è stato già riformato più volte, in senso sempre più restrittivo. Oggi la norma punisce solo comportamenti oggettivamente gravi. Bisogna provare che il pubblico funzionario ha violato intenzionalmente un obbligo di legge, quando non aveva margini per scelte discrezionali, e insieme che ha danneggiato o favorito qualcuno. Servono entrambi i requisiti: una doppia ingiustizia. Con l'abolizione si aprirebbe anche un vuoto normativo sui conflitti d'interesse più smaccati: il barone che favorisce al concorso l'amante; il funzionario che affida direttamente contratti pubblici, oltre il limite di legge, all'azienda amica».
Sarebbe necessaria anche una legge per regolare l'attività di lobby?
«Assolutamente sì, ce l'hanno raccomandato diverse istituzioni internazionali. La mancanza di regole è una delle cause che rendono ambigua e incerta l'applicazione di reati come il traffico d'influenze. Non si deve criminalizzare l'attività lecita di chi rappresenta interessi particolari. Ma i rapporti vanno regolati, bisogna creare canali trasparenti, accessibili, gratuiti, anche digitali, per contattare i titolari di pubblici poteri. E non possono esserci scambi economici: il privato beneficiario di un atto pubblico non può mai dare soldi al politico o al funzionario che prende la decisione».
Manca anche una legge sui finanziamenti dall'estero ai partiti o a singoli politici.
«È un problema molto serio. Occorre tutelare le legittime posizioni che ogni candidato può avere in materia di politica estera. Però c'è bisogno non solo di assoluta trasparenza sui finanziamenti, ma anche di limitazioni, per evitare influenze arbitrarie di Stati stranieri. Uno dei nodi della democrazia è la disparità di mezzi tra candidati ricchi e poveri, che falsa la competizione elettorale. Anche il nostro due per mille ha questo limite. Da tale punto di vista, sarebbe preferibile un finanziamento deciso con una scheda aggiuntiva nell’urna e non con la dichiarazione dei redditi».