Tecnologia

Paghe bassissime, pessime condizioni: arriva anche in Italia il proletariato dell'intelligenza artificiale

di Alessandro Longo   21 giugno 2024

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Intelligenza artificiale

È lo stesso meccanismo che finora ha riguardato solo i Paesi poveri. Ma ora gli annunci di aziende alla ricerca di “addestratori” dei nuovi sistemi iniziano a circolare anche nel nostro Paese. Abbiamo provato a candidarci

Ti va di aiutare l’intelligenza artificiale (Ia) a migliorarsi, a essere più brava quando ci parla nei chatbot, crea immagini o guida le auto? Ed essere pagati per questo? Un lavoro “divertente”, da svolgere da casa al computer, e che ti consentirà anche di «migliorare il mondo intorno a te». Addirittura: un’allusione alla previsione secondo cui l’Ia presto sarà in tutte le salse, negli uffici, nelle fabbriche e nella sanità pubblica. È la promessa che rimbalza in annunci di lavoro che cominciano a essere rivolti agli utenti italiani. A noi l’ha proposta il social network Linkedin, ritenendola adatta al nostro profilo, che conosce: madrelingua esperto di italiano, buon conoscitore dell’inglese, con una passione per le tecnologie.

 

Ci siamo candidati al lavoro e abbiamo superato la fase iniziale di test (durata un’ora circa). Volevamo vedere che significa lavorare al servizio dell’Ia. Del resto, l’arrivo di questi annunci sul mercato italiano è significativo. Finora le big tech, tramite aziende di terze parti, si sono rivolte solo a Paesi in via di sviluppo o del Terzo Mondo per questi compiti. Con molte polemiche, tra l’altro, per la paga bassissima (1-2 euro l’ora) e le pessime condizioni di lavoro. Insomma: arriva anche in Italia il proletariato dell’intelligenza artificiale; quell’innovazione che ora attira miliardi di investimenti e ne fa guadagnare ai suoi leader (14 miliardi di profitti puri per Nvidia, il colosso dei chip, nel primo trimestre 2024).

 

Di base il meccanismo è lo stesso di quello che finora ha riguardato solo i Paesi poveri. L’Ia, per affinarsi, ha bisogno ancora di esseri umani che la aiutino. I classici compiti affidati ai freelance sono mettere didascalie a immagini, identificare veicoli, segnali stradali e distinguere pedoni in una foto.  L’Ia utilizza poi tutti questi dati per imparare e quindi riconoscere da sola un’immagine (o crearla), ad esempio. Oppure i lavoratori devono correggere l’Ia quando produce contenuti errati o lesivi (razzisti o violenti, ad esempio), così la prossima volta farà meglio (si spera).

 

Aziende come Google o OpenAi (quella del famoso ChatGpt) da anni si rivolgono a terze parti che impiegano, a questo scopo, freelance in Paesi come il Kenia, le Filippine, il Venezuela. Un’indagine di Time e una dell’Institut Mines-Télécom di Parigi hanno accusato le aziende coinvolte di sfruttamento dei lavoratori; non solo per la paga bassissima (rispetto soprattutto ai miliardi che girano dietro queste tecnologie) ma anche per lo stress psichico a cui li sottopongono: compiti ripetitivi, contenuti tossici. 

 

Tutto questo sbarca anche in Italia e lo fa perché siamo entrati in una nuova era dell’Ia, che vive un crescente boom di servizi, innovazioni e interesse globale. I chatbot ora parlano anche a voce in modo realistico, creano musica, mail e codice informatico (tra l’altro). Quest’Ia di nuova generazione comincia persino a entrare nei robot in fabbrica, per svolgere compiti che finora erano un’esclusiva degli esseri umani. Insomma, ora l’Ia per migliorarsi ha bisogno di un esercito di freelance più esperti. Servono competenze linguistiche elevate per correggere una traduzione o lo stile di una mail creata da un chatbot, ad esempio. Bisogna essere un bravo programmatore per trovare errori del codice fatto dall’Ia.

 

Questo tipo di lavoro, che ora potremmo chiamare “addestratore di Ia”, usa quindi ora manodopera più competente, anche in Paesi sviluppati e persino negli Usa (come riporta una recente indagine del New York Times). Ma i compensi, almeno, sono migliori? Insomma: dipende dal compito e dal Paese.

 

L’azienda presso cui ci siamo candidati si chiama Moravia, è polacca e fa parte della multinazionale inglese Rw (specializzata nella «trasformazione dei contenuti attraverso la traduzione, la localizzazione e la tecnologia basata sull’intelligenza artificiale, unite alla competenza umana», si legge nel suo sito). I compiti previsti per quell’annuncio: descrivere i contenuti di un’immagine, di un video, trascrivere un testo; raccogliere dati o creare contenuti per addestrare i sistemi; classificare, valutare o correggere i contenuti prodotti dall’Ia. Rw ha pubblicato su Linkedin circa 300 annunci simili, su diversi Paesi, in tutti i continenti.

 

Per gli Stati Uniti i compensi medi sono di circa 20 dollari l’ora. Per l’Italia, a seconda del compito, la piattaforma suggerisce di tenersi molto più bassi, per sperare di aggiudicarselo: dai 7 ai 15 euro l’ora, lordi. Insomma, in una sorta di asta al rovescio, spinge i lavoratori a essere più “competitivi”. Di fatto li mette in competizione tra loro e spingendo così in basso le tariffe.

 

Noi ci siamo tenuti bassi ma abbiamo atteso invano circa due settimane (fino al momento di scrivere quest’articolo) per l’arrivo di un lavoro sulla piattaforma. Molto critico Antonio Aloisi, autore del “Il tuo capo è un algoritmo” (Laterza, 2020): «Pur di arrivare prime sul mercato, le aziende di Ia si trovano costrette a lanciare prodotti incompleti. Tocca poi a “umani a basso costo” il compito di ripulire, manutenere e migliorare questi sistemi. In una spirale verso il basso: migliaia di lavoratori mal pagati e scarsamente protetti».

 

Sono quelli che Marco Bentivogli chiama «operai dell’intelligenza artificiale». L’attivista, ex sindacalista e co-fondatore di Base Italia, esperto di politiche di innovazione, teme che ne verrà «una polarizzazione ancora più marcata tra Paesi, imprese e lavoratori». Il rischio è che dal boom dell’Ia verrà un divario crescente «tra quelli che ne saranno coinvolti da protagonisti e chi ne resterà marginalizzato», dice Bentivogli.