Contro Modrić e compagni si decide il futuro della nazionale in un torneo dove, tranne Donnarumma, gli artisti non vestono più la maglia azzurra. Dopo anni di riforme fallite, il nostro calcio ha smesso di produrre geni

L’Italia, il paese più avanzato del mondo nell’abolizione del talento, affronta la Croazia agli Europei con la speranza di qualificarsi per la fase a eliminazione diretta. Uscire al primo turno sarebbe una specie di impresa visto che passano agli ottavi sedici nazionali su ventiquattro partecipanti. Difficile ma non impossibile per quella che, a parere di molti, è la squadra azzurra più scarsa da quando esiste la televisione.

 

Se accadrà, sarà tutta colpa del commissario tecnico Luciano Spalletti che, in modo inspiegabile, non ha convocato Baggio, Zola, Totti, Baresi, Rivera e Mazzola. Così si trascorre la vigilia a scervellarsi sull’apporto di Darmian, Cristante, Fagioli, Retegui alla formazione che affronterà gli slavi. Se le partite le giocassero i nomi, non avremmo speranze. Basta leggere le formazioni e rinfrescare la storia recente.

 

L’Italia si è qualificata per l’ultima volta ai Mondiali del 2014 in Brasile. È uscita al primo turno con due sconfitte in tre partite contro Uruguay e, tremate, Costa Rica. Poi sono arrivate due mancate qualificazioni di fila, nel 2018 e nel 2022. In questi dieci anni di tristezza, è arrivato il cigno azzurro dell’Europeo 2020, giocato l’anno dopo per la pandemia e vinto con Roberto Mancini in panchina.

 

I croati sono arrivati in finale nei Mondiali del 2018 e terzi in Qatar 2022. Molti di loro sono ancora in campo, invecchiati ma sempre talentuosi. Il loro capitano, Luka Modrić, è stato nominato Pallone d’Oro nel 2018 interrompendo il “mano a mano” iniziato nel 2008 fra Cristiano Ronaldo e Leo Messi. Dopo la vittoria di Fabio Cannavaro nel 2006, anno dell’ultimo Mondiale vinto dall’Italia, il podio della classifica dedicata al migliore calciatore del mondo vede un solo italiano. È Jorge Luiz Frello Filho, detto Jorginho, dotato di un trisnonno veneto, arrivato terzo nel 2021.

 

Il Messaggero di domenica ha aperto la sezione sport con una foto che, come tutte le foto, vale più di mille parole. Di qua, c’è Modrić. Di là, c’è Pellegrini. In comune hanno sulla maglia il dieci, il simbolo dell’arte calcistica. Purtroppo, tolto Gigio Donnarumma, di arte l’Italia ne ha molto poca. Potrebbe bastare metterla sulla corsa contro una Croazia che pure si sta rinnovando più in fretta degli azzurri, nonostante una base di reclutamento cinquanta volte inferiore ai tesserati della Figc (1,4 milioni).

 

Potrebbe bastare un pareggio ma per arrivare dove? Un’eliminazione ai quarti, magari con l’Inghilterra battuta in finale a Euro 2020, sarebbe festeggiata come un successo. Sempre se la Svizzera, probabile avversario agli ottavi, sarà d’accordo. Ha senso vivacchiare per una superpotenza dello sport più seguito al mondo? E chi sono i responsabili della decadenza?

 

La politica dello sport ha dedicato questi anni a riforme istituzionali, tavoli bilaterali Lega-Figc, propositi bellicosi e rivoluzioni abortite. Ma i dirigenti sono sempre gli stessi, da decenni, e nel palleggio delle responsabilità batterebbero anche i centrocampisti della Spagna. Nell’elenco delle scuse ci sono i club che comprano troppi stranieri e non fanno giocare i giovani. Se li fanno giocare, i giovani preferiscono la PlayStation perché non hanno la grinta della fame. Altri classici sono la scuola che non educa allo sport, procuratori che guadagnano troppo, i genitori invadenti, i tecnici del vivaio che ingabbiano nella tattica anche i bambini di sei anni.

 

Tutto plausibile ma il calcio è un sistema globale. Le sue regole sono le stesse ovunque. La PlayStation, i tatuaggi e gli agenti avidi non sono un’esclusiva italiana.

 

Se l’Italia è questa, se i giocatori italiani sono fra i meno quotati nei tornei più importanti d’Europa, se nemmeno i sauditi li vogliono e l’unico passaporto tricolore presente nella Pro League di Riad è quello di Luiz Felipe, oriundo brasiliano, la spiegazione è una sola. In pochi anni il sistema calcistico nazionale è riuscito ad azzerare il talento. L’ultimo è il capitano Donnarumma, cresciuto nel Milan che non ha neppure un convocato nella selezione di Spalletti.

 

Perché è accaduto? Alla fine, è abbastanza semplice. Talento equivale a rischio, umano e d’impresa. Significa investire in qualcuno che può finire come Mario Balotelli. Eppure non provare significa fallire con certezza. Spalletti lo sa meglio di tutti per avere vinto l’unico scudetto della sua vita grazie a un georgiano che gioca come un’ala anni Settanta, quando al terzo passaggio indietro di fila i tuoi tifosi, non quelli avversari, ti seppellivano di fischi.

 

Il giocatore di talento ruba la scena a tecnici, politici e manager del calcio perché ha bisogno solo della sua arte. Per i signori delle poltrone è questo il rischio inaccettabile. Allora, invece di un genio, meglio produrre mediocri. Se si perde, è colpa loro. Se si vince.