Per il fondatore del Censis, le disparità vanno gestite. Affidandosi a chi opera nelle realtà locali. E senza cedere alla tentazione di calare il potere dall’alto. "Per problemi complessi non esiste una soluzione unica decisa nelle stanze romane. Così com’è sbagliato concentrare il governo in una singola figura"

«Lo sviluppo è un continuo squilibrio, è un’evoluzione ininterrotta che cambia ogni giorno e che procede per strappi. È soltanto un mito quello che descrive lo sviluppo come un riallineamento delle condizioni di tutti i cittadini». C’è assai poca accondiscendenza verso la narrazione dominante sul Paese nella visione di Giuseppe De Rita, classe 1932, tra i fondatori del Censis, l’istituto di ricerca che, sotto la sua guida, fotografa da decenni l’Italia rilevandone e analizzandone i mutamenti socio-economici. Convinto che le contraddizioni siano spesso apparenti e che le disparità siano fisiologiche, De Rita invita, semmai, a «gestire lo squilibrio». Come? «Stando quotidianamente dentro alle cose e dentro ai processi, non guardandoli da fuori. E, da questo punto di vista, intervenendo in maniera rapida sui singoli problemi. Perché non è vero che facendo riforme si genera progresso o si crea armonia; quando il legislatore interviene sui redditi o sulla tassazione con nuove norme tocca meccanismi diversi».

 

Un’altra leggenda da sfatare, quindi. E il pensiero corre alla riforma a cui da ultimo è stato demandato il compito d’incentivare lo sviluppo liberando le Regioni dai lacci dello Stato centrale: quell’autonomia differenziata di fresca promulgazione. «Negli anni Settanta sono stato pioniere del localismo, ma venivo sminuito e additato come uno studioso di fenomeni di folclore», ricorda De Rita: «Poi le forze politiche si sono appropriate del localismo e lo hanno esasperato. Ecco, questa autonomia da perseguire attraverso una riorganizzazione dall’alto delle varie funzioni non mi convince. Al contrario, è qualcosa che dovrebbe avvenire dal basso. Se si parla d’industria, per esempio, occorre rispondere ai bisogni specifici di ciascuna realtà produttiva territoriale affidandosi a quanti operano concretamente al suo interno». Insomma, a chi conosce la situazione nella dimensione “micro” – dalle associazioni di categoria di artigiani e imprenditori fino ai sindacati – piuttosto che ai responsabili amministrativi.

 

Del resto, la tentazione di ricondurre la molteplicità a un blocco monolitico e di porsi in un’ottica di verticalità è tipicamente italiana. «La paura di non riuscire a superare la frammentazione innesca un meccanismo psicologico naturale, quello che spinge a concentrare il potere in un unico soggetto affinché ristabilisca l’ordine – continua De Rita – cioè l’esatto opposto del policentrismo decisionale che caratterizza una democrazia». Il riferimento al cosiddetto premierato tanto caro alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sorge spontaneo. È una buona idea? «La nostra è una società moderna e complessa, non la si può governare dall’alto. Serve, invece, un governo orizzontale capace di mediare, di stringere accordi e di mettere a frutto le reti che percorrono il Paese. Se una figura forte che decida da sé tutto e subito ha senso in un contesto d’emergenza come la guerra, nella normale quotidianità l’uomo o la donna soli al comando che si circondano di fedeli gerarchi non sono mai auspicabili. Anzi, sono terribili».

 

E l’irresistibile fascino della semplificazione si estende a qualsiasi grande questione sociale, dal lavoro alla povertà. «Di fronte a problemi di tale portata, tuttavia, è molto difficile che esista una soluzione unica, elaborata nelle stanze romane del potere una volta per sempre. Si pensi alla precarietà: s’è creduto di eliminarla per decreto, ma così non è stato; la strada giusta, semmai, è quella della contrattazione e degli investimenti a livello locale. Quanto alla povertà, ho quasi rinunciato a capire se ci sia davvero o no… Per dimostrare che è aumentata, si è passati dal dire che i due terzi degli italiani non arrivano alla fine del mese al dire che il 60 per cento di loro non riesce a risparmiare. Ma sono cose diverse. Ormai se ne discute come fosse una tematica d’opinione, un terreno di battaglia politica, a discapito di un dibattito serio».

 

Secondo De Rita, infatti, fermarsi alla superficie della realtà porta di frequente a prendere abbagli o a perpetuare stereotipi. Nella sua veste di ex membro dello Svimez e meridionalista, per esempio, legge nei dati che riguardano la crescita del Sud «il sintomo di una progressiva riduzione del divario rispetto al Nord, di un lento processo di miglioramento». Un’impressione che rischia di esporlo all’accusa di ottimismo eccessivo o «beota», ma che si basa su tre indicatori: «La capacità di spesa, gli investimenti, a cui si aggiungono anche le risorse messe a disposizione dal Pnrr, e, soprattutto, le opportunità offerte dal turismo. Certo, restano le zone d’ombra. Però si è superato quello squilibrio complessivo tra Mezzogiorno e Settentrione».

 

Allo stesso modo, quando si tratta di occupazione, va rovesciata la narrazione consolidata sull’incontro tra domanda e offerta: «Contrariamente a ciò che accadeva in passato, oggi, in diversi settori, ci sono datori di lavoro che cercano personale ben motivato e che faticano a trovarne. Mentre ci sono più giovani formati e specializzati, i quali, però, non si sentono soddisfatti dal mercato tradizionale dell’impiego. Dunque, è necessario che sia i privati sia l’amministrazione pubblica si aggiornino, con concorsi maggiormente attrattivi, con proposte più articolate, innovative, competitive. Non solo. Si è chiusa l’epoca della gratitudine al limite del servilismo nei confronti di chi concedeva un’assunzione e si è compiuta una presa di coscienza che porta a rivendicare garanzie e diritti di cui il lavoratore deve godere. È un fatto strutturale».

 

Poi c’è l’abbaglio massimo. Quello sulle cause del calo demografico con cui il Paese fa i conti. «Si tratta di un problema enorme e drammatico; già in tempi non sospetti, avevo lanciato l’allarme al riguardo», commenta De Rita. «Si sbaglia, però, pretendendo di spiegare tale tendenza soltanto alla luce delle difficoltà materiali in cui incappano i neogenitori. So di attirarmi le critiche indignate delle femministe, ma ritengo che la carenza di posti negli asili nido, il costo di pappe e pannolini, l’inadeguatezza dei sostegni alle madri e l’incertezza del reddito non siano ragioni sufficienti per non avere figli. Bisogna risalire alle radici antropologiche e culturali della questione, bisogna studiarle. Forse siamo davanti alla crisi del desiderio, sessuale e non solo, di cui parla lo psicoanalista Massimo Recalcati. Forse la nostra società ha perso l’anelito di futuro. Forse s’è incrinata l’intimità di coppia o familiare. E come si affronta tutto questo? Perché non se ne parla? Probabilmente perché si smuovono sentimenti troppo profondi che incutono timore».

 

«La complessità, lo ripeto, spaventa; perciò fuggiamo e ci rifugiamo nella rassicurante banalità».