In appena due casi ogni cento vengono contattate le forze dell’ordine. E, secondo l'Istat, la maggior parte delle volte le persone non saprebbero cosa fare se capitasse loro: «Servono leggi per applicare la Convezione n°190 dell'Ilo e formazione per i dipendenti»

«Ho aiutato un collega a fare domanda di trasferimento perché aveva difficoltà. Da quel giorno ha iniziato, prima, ad accusarmi di avergli rubato i soldi visto che avevo avuto accesso al suo pc. Poi, a mandami decine di email, una dopo l’altra: “Perché non mi rispondi?”, “dove sei?”, “che stai facendo?”. Infine, ha cominciato a contattarmi sul cellulare, dopo avere trovato il numero su un vecchio cv rimasto online: chiamava e attaccava ogni sera. E mandava sms in cui insinuava falsità sulla mia vita privata». A raccontare il comportamento molesto subìto sul lavoro alla fine del 2023 è S., dipendente di un ministero. Chiede che la sua testimonianza resti anonima per non attirare l’attenzione sulle specificità di un caso che non può dirsi ancora chiuso. Ma vuole che se ne parli.

 

«Ho informato subito tutti i colleghi. Perché non sopporto l’idea che qualcun’altra possa trovarsi in una situazione simile alla mia», spiega S. a #Lavoromolesto, lo spazio anonimo di denuncia ideato da L’Espresso insieme con Cgil Piemonte e Umbria allo scopo d’invitare chi subisce molestie e violenze in ufficio, in fabbrica, in azienda a parlarne. Per dare forma a una normalità diversa da quella di oggi: «Così ho scoperto di non essere l’unica ad avere subìto stalking da parte del collega. Le altre due, però, hanno preferito non dire nulla, nella speranza che quell’uomo non sarebbe mai andato oltre. Ma come esserne certe? Tra l’altro, sul mio vecchio cv, Mario (nome di fantasia, ndr) aveva letto anche l’indirizzo di casa».

 

S. non ha perso tempo: ha contattato due avvocati, un civilista e un penalista. E ha fatto una segnalazione interna al ministero: «Così è partito l’iter, identico per tutte le violazioni del codice di comportamento dei dipendenti: dall’ingresso in ritardo al maltrattamento della tecnologia. Fino alle molestie. Tutte le segnalazioni arrivano alla sede centrale di Roma e vengono analizzate». Con il risultato che sono passati più di tre mesi per avviare il procedimento disciplinare nei confronti del collega: «Di cui, però, non ho saputo nulla; sospetto che sia stato sospeso perché non lo incontro in sede. Tre mesi non sono pochi quando c’è qualcuno che ti cerca insistentemente ogni giorno». S. racconta di essersi sentita impotente: «Non riuscivo a stare tranquilla neanche a casa. Mi sono sentita privata della libertà. Avevo paura, così sentivo che l’altra persona aveva un potere su di me. Solo quando, con il provvedimento disciplinare, il collega da carnefice è diventato vittima, cosa che non si aspettava, ho iniziato a stare meglio».

 

La reazione di S. – cioè quella di parlare con i colleghi, contattare gli avvocati e far partire la procedura interna – è un’eccezione. Perché nella maggior parte dei casi, chiarisce l’ultima indagine Istat, chi è vittima di molestie resta zitto. Su 2,322 milioni di persone che hanno subìto almeno una molestia a sfondo sessuale sul lavoro nell’arco della vita, l’81,6 per cento è rappresentato da donne (soprattutto giovani): 1 milione e 900 mila. Ma di queste solo il 2,3 per cento ha contattato le forze dell’ordine e il 2,1 per cento altre istituzioni ufficiali. Mentre l’8 per cento si è rivolto a un consulente, il 14,9 per cento al datore di lavoro o a un superiore. Il 16,3 per cento si è confidato con i colleghi. La ragione di percentuali così basse è che in tante realtà mancano i punti di riferimento. Infatti, quasi il 70 per cento degli intervistati dice che non saprebbe cosa fare se fosse una vittima. Oltre l’86 per cento sottolinea che non c’è una persona a cui rivolgersi. Secondo il 93,6 per cento non si fanno corsi di formazione sulle molestie, su come prevenirle, su come comportarsi.

 

«L’Italia, nel 2021, ha ratificato la Convenzione n.190 dell’Organizzazione internazionale del Lavoro sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro. Ma questo non è sufficiente: serve emanare leggi e regolamenti che diano seguito alla sua applicazione», spiega Graziella Silipo, responsabile del dipartimento Salute e Sicurezza sul lavoro di Cgil Piemonte: «Così il percorso legislativo non può prescindere dalla puntuale definizione di violenze e molestie data dalla Convenzione, secondo cui sono “un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico”, incluse “la violenza e le molestie di genere”». Come sottolinea la responsabile Cgil, però, non bastano le leggi: «Serve informare i lavoratori sull’iter da seguire. Dire che cosa sarebbe necessario fare. Ricordare che nel caso di denuncia è chi ha adottato i comportamenti violenti a dovere dimostrare che non sono tali».

 

Proprio per accrescere la consapevolezza e puntare sulla prevenzione «sarebbe utile avviare percorsi per inserire violenza e molestie nel Documento di valutazione dei rischi che le aziende redigono. Perché i danni su salute e qualità della vita sono tra le più evidenti conseguenze dei comportamenti molesti, che impattano, ad esempio, su motivazione, produttività o assenze. Così, visto che è responsabilità dei datori di lavoro garantire un ambiente sano e sicuro, una volta individuati e valutati i rischi associati alle molestie, possono essere adottate le misure appropriate per prevenirle», conclude Silipo che nella Regione Piemonte è tra i promotori, appunto, di un percorso formativo sulla prevenzione delle molestie.