Coordinano gli interventi in mare, dialogano con i naufraghi, governano la nave. Sulle imbarcazioni delle ong la presenza femminile è sempre più frequente. Ecco le storie di alcune di loro

Una nave umanitaria è un po’ come un ventre materno, accompagna il passaggio da una vita a un’altra, nel sublime esercizio della rinascita. Uno spazio sicuro che attraversa le acque più letali al mondo, quelle del Mediterraneo centrale, con l’obiettivo di portare sulla terraferma più esseri umani possibile.

 

«Per me essere una soccorritrice è stata sin da subito una missione, non lo considero un lavoro. Da diversi anni è ormai la mia vita», spiega Viviana appoggiando il binocolo agli occhi per pattugliare la distesa d’acqua al di là del ponte di comando. Ci troviamo a bordo della Humanity 1, la nave umanitaria dell’ong tedesca Sos Humanity, nella zona di ricerca e soccorso libica. «Nella mia vita passata ero una bagnina, mi sono laureata in comunicazione istituzionale e pubblica e ho fatto un master in diritti umani e cooperazione internazionale, ma sentivo che c’era qualcosa che mi mancava», continua Viviana, siciliana di 44 anni e coordinatrice delle operazioni di ricerca e soccorso nella tredicesima missione della Humanity 1, «da quando ho iniziato a lavorare a bordo delle navi umanitarie ho capito che il mio posto è qui».

 

È da poco terminato il primo soccorso, 31 superstiti sono stati tratti in salvo e si trovano ora a bordo della nave assieme ai 29 membri dell’equipaggio. La calma però dura poco: «May day, may day», si sente di nuovo sul ponte di comando, un altro barchino alla deriva ha immediato bisogno di soccorso. Pochi minuti per capire cosa fare. Viviana prende la radio e impartisce l’ordine: «All crew all crew, ready for rescue», tutto l’equipaggio si prepari al salvataggio. Il tempo su una nave umanitaria scorre a un ritmo non lineare. La lentezza della vita a bordo può trasformarsi in qualsiasi momento nella frenesia del soccorso. Bisogna arrivare il prima possibile: prima che la barca si ribalti, che le persone siano già in acqua, prima della cosiddetta guardia costiera libica.

 

Zeina è mediatrice culturale

 

Nella corsa contro il tempo è Viviana a gestire le operazioni. «Il mio ruolo – spiega – è coordinare il soccorso sia dalla nave sia dai gommoni. Sono sul ponte di comando con il capitano a cercare le imbarcazioni in difficoltà, quando le individuiamo contatto le autorità. Decido quando mettere i gommoni in mare. Salgo a bordo, stabilisco ogni mossa da compiere, dirigo le operazioni durante la loro intera durata».

 

I rhib, i gommoni con cui si effettuano i soccorsi, sono in acqua, calati con grande anticipo per decisione della coordinatrice Sar. Comincia la ricerca, quindici minuti di navigazione veloce prima di intravedere in lontananza il target. «Siamo europei, siamo una nave di salvataggio, siamo qui per aiutarvi», urla Viviana in piedi sulla punta del rhib. Le fa eco in arabo Zeina, la mediatrice culturale.

 

«Per me non è semplice essere la seconda persona, dopo Viviana, che dà istruzioni dal rhib. Per le persone che soccorriamo prendere ordini da una donna è molto difficile. A volte collaborano molto di più con Viviana che con me, perché lei è straniera. Io sono una donna della loro stessa cultura e per gli uomini di questa cultura non è facile obbedire a donne di potere. All’inizio ho sempre questo muro da abbattere, ma dopo un po’ si adattano perché sanno che non siamo in Medio Oriente, qui non c’è questo tipo di gerarchia», spiega Zeina, 28enne egiziana, mentre si fa spazio nel rhib che nel frattempo è già stracolmo di persone. «Sono una donna che ha sempre avuto paura di tutto. Non riesco a dormire o stare in casa da sola. Sono l’esatto contrario di una persona coraggiosa. Ho paura delle barche e degli aerei. Questa per me è una grande sfida anche nei confronti di me stessa, ogni volta che salgo a bordo devo affrontare il mio più grande nemico: la paura», conclude.

 

Intanto il gommone con il primo gruppo di  persone soccorse si accosta alla fiancata sinistra della nave madre. A una a una scendono per prime le donne, il momento del passaggio dal rhib alla nave è estremamente delicato e a prendersene cura è Eva. Salda al suo imbrago Eva si sporge per far salire a bordo i naufraghi. «One, two, three, up», le persone vengono trasbordate sulla nave madre. «A bordo della Humanity 1 faccio parte del team delle operazioni di ricerca e soccorso. All’interno di  questa missione il mio ruolo è anche quello di “puller”, ovvero colei che prende le persone per portarle sul ponte della nave madre», spiega Eva, 33 anni, francese di origine.

 

«La mia posizione è quella di marinaia esperta. Giorno e notte, durante la navigazione, faccio la manutenzione del ponte, sto in plancia con il capitano e sono incaricata di fare le operazioni di manovra e di ancoraggio. Prima di salpare mi assicuro che tutto sulla nave sia pronto per la  missione».

 

Dopo quasi due ore i 75 naufraghi sono finalmente tutti a bordo. Eva si slega l’imbrago, leva il caschetto e scioglie i capelli ricci che le incorniciano il volto. «Per me essere una donna marinaia non è mai stato semplice. Un tempo lavoravo per yacht privati. Durante la mia prima esperienza a bordo mi misero in cucina. Eravamo in tutto cinque marinai e marinaie, ma noi lavoravamo solo ai fornelli. Nel passato alle donne era vietato salire a bordo delle navi, si diceva portassero sfortuna. Adesso le cose stanno cambiando ma ci sono ancora dei bias nel riconoscimento a pieno titolo della nostra figura». Da dieci anni a questa parte, più o meno da quando sono iniziate le missioni in mare, le donne a bordo di navi umanitarie, invece, rivestono i ruoli più disparati, dalle comunicazioni al primo soccorso, al ruolo di capitane.

 

Eva, di origine francese, è anche “puller”. Trasporta i naufraghi dai gommoni sulla nave

 

A bordo il tempo è ripreso a scorrere lentamente. Sono quattro lunghi giorni di navigazione quelli che devono affrontare le 106 persone, di cui 8 donne e 16 minori, a bordo della Humanity 1. Per decisione delle autorità italiane, infatti, è stato loro assegnato come porto di sbarco quello di Ortona.

 

«Complimenti per il lavoro svolto», dice Viviana all’equipaggio prima di scomparire nella sua cabina. Una doccia veloce e una sigaretta in solitudine, nel silenzio del mare che culla il calo dell’adrenalina.  Zeina invece corre avanti e indietro sul deck, dove si trovano i sopravvissuti. È lei l’unica mediatrice a bordo, il ponte tra noi e loro. «Penso che la mediatrice culturale sia un punto nodale tra i sopravvissuti e l’equipaggio. Il mio lavoro non è solo saper tradurre, significa fare attenzione alle differenze culturali, alle tradizioni, alla religione», spiega, «mi sento come se fossi un imbuto, come se tutte le informazioni dei sopravvissuti dovessero passare attraverso me per arrivare all’equipaggio. Se non ci fossi io, molte cose si perderebbero nella traduzione. Questa è la mia gente, queste persone sono come me, dello stesso Paese o della stessa regione, dello stesso colore, della stessa cultura, della stessa religione. So esattamente come si sentono e di cosa hanno bisogno».

 

La costa di Ortona si intravede dalla prua gialla e blu della nave. L’aria è tesa, un misto tra gioia infinita e terrore. Il catartico passaggio verso una nuova, difficile esistenza è quasi terminato. È il momento di separarsi.

 

Con la vita passata racchiusa in un sacchetto di plastica, i sopravvissuti percorrono lentamente la passerella in ferro che collega la nave al molo. Un ultimo abbraccio, una manina si alza dal furgoncino della Croce Rossa: «Goodbye», urla uno dei minori non accompagnati. Una lacrima attraversa il viso di Viviana: «Ce l’hanno fatta», sussurra a Zeina. «Ce l’abbiamo fatta», le risponde lei.