L'ultima sentenza indica l’uscita delle soggettività trans* dalla condizione di minorità: "Ma la tutela dei diritti non è compito soltanto dei giudici: è soprattutto responsabilità della politica". Parla Angelo Schillaci, professore di diritto pubblico comparato alla Sapienza di Roma, uno dei massimi esperti in Italia di diritti e identità negate

«Un’innovazione che segna un passo avanti nell’uscita delle soggettività trans* dalla condizione di minorità in cui l’ordinamento le ha relegate per troppo tempo». Angelo Schillaci, professore di diritto pubblico comparato all’università Sapienza di Roma, uno dei massimi esperti in Italia di diritti e identità negate, commenta così l'ultima sentenza della Corte Costituzionale sulla persona non binaria che ha fatto richiesta di rettificare il sesso nell’atto di nascita da “femminile” ad “altro”.

 

Professore secondo la Corte l'eventuale introduzione del terzo genere è affare del legislatore, partiamo però dall'oggetto della questione. Può spiegarci cosa si intende per "terzo genere"?
«L’istituzione di un terzo genere anagrafico ha la funzione di consentire alle persone che non si riconoscono nel genere maschile o in quello femminile – perché intersessuali o non binarie - di indicare tale circostanza sui documenti. Come ha osservato la Corte costituzionale, in molti altri paesi il terzo genere anagrafico è realtà da molti anni. I primi casi, come l’Australia e l’India, risalgono al 2014; il più recente è quello tedesco, con la legge sull’autodeterminazione dell’aprile scorso. Si tratta di uno strumento importante, che avvicina l’ordinamento alla concretezza delle esperienze di vita. Per le persone intersessuali, ad esempio, la possibilità di attribuire fin dalla nascita un terzo genere evita il rischio di essere sottoposte a interventi chirurgici erroneamente ritenuti “correttivi”. Per le persone non binarie, la possibilità di attraversare la società con un’identità giuridica che non le costringa entro i margini del binarismo anagrafico».

 

E cosa ci dice questa sentenza?
«La Corte ha ritenuto di non poter intervenire direttamente: le implicazioni sistematiche dell’introduzione del terzo genere anagrafico sono tali e tante, in un ordinamento improntato al binarismo, che – secondo la Corte – solo il Parlamento ha la competenza di occuparsene. Allo stesso tempo, però, la Corte ha speso parole molto importanti sulle identità non binarie. Non ne ha soltanto riconosciuto l’esistenza (e, in fondo, sarebbe stato assurdo il contrario): ha ricondotto la loro esperienza di vita all’ambito espressivo del principio personalista, di cui all’articolo 2 della Costituzione e ha affermato che l’esigenza del riconoscimento e della protezione di esse discende dal principio di pari dignità sociale sancito dall’articolo 3. Un passo avanti importante, che apre scenari fondamentali per l’immaginazione democratica nel nostro Paese».

 

La Corte ha citato anche le “carriere alias”, quello strumento burocratico che offre la possibilità per uno studente di registrarsi con un nome che corrisponde alla propria identità di genere anche se diverso da quello anagrafico.
«Sì, proprio a testimonianza non solo dell’esistenza di persone non binarie ma anche del progressivo affermarsi nella pratica quotidiana di molte istituzioni, a partire dalle scuole e dalle università, della necessità di riconoscerle e tutelarle. Le carriere “alias” servono proprio a questo: consentire a una persona in affermazione dell’identità di genere o a una persona non binaria di poter abitare la comunità secondo la propria identità di genere e con il proprio nome di elezione. Una questione di dignità e di eguaglianza».

 

Angelo Schillaci

 

La sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale dell’autorizzazione giudiziaria dell’intervento chirurgico nei percorsi di affermazione dell’identità di genere, ritenendola irragionevole. Cosa vuol dire?
«La seconda parte della sentenza non è di semplice lettura e richiederà uno sforzo di riflessione ulteriore. Anzitutto, non si tratta di una dichiarazione di incostituzionalità “secca”. La Corte dichiara incostituzionale l’autorizzazione all’intervento quando le modificazioni dei caratteri sessuali già avvenute siano ritenute dal tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione anagrafica. La Corte, insomma, ritiene del tutto irragionevole imporre l’autorizzazione giudiziaria all’intervento a una persona che viva un percorso di affermazione dell’identità di genere già molto avanzato. Allo stesso tempo, la sentenza contiene affermazioni importanti. Riconosce la matrice paternalistica dell’imposizione dell’autorizzazione giudiziaria all’intervento chirurgico per persone maggiorenni e capaci di autodeterminarsi. E riconosce esplicitamente che l’autorizzazione “non ha eguali nel panorama comparatistico”. Su questa base occorrerà lavorare per chiarire la concreta portata applicativa di questa sentenza».

 

Non è la prima volta che una sentenza afferma che la demolizione dei genitali non è necessaria per il cambio di sesso, giusto?
«No, non è la prima volta e, anzi, questa sentenza si appoggia esplicitamente su alcune importantissime sentenze – costituzionali e di legittimità – del biennio 2015/2017. Da allora è stato chiarito che l’intervento chirurgico non è condizione necessaria per ottenere la rettificazione anagrafica. Ed è per questo che la Corte, oggi, può ritenere irragionevole la necessità di autorizzare l’intervento, anche se – come detto – su alcuni punti sarà necessaria una riflessione ulteriore. Ma è senz’altro un passo avanti importante sulla strada di un equilibrio più avanzato tra autodeterminazione della persona, ruolo del servizio sanitario e ruolo del giudice nelle vicende relative all’affermazione dell’identità di genere. Sulla strada, vorrei dire, della restituzione alle persone trans* della piena sovranità sui loro corpi».

 

Molti critici dicono che questa sentenza potrebbe introdurre il cosiddetto self-id, cioè l'autocertificazione di genere.
«Non è vero. Non era in questione la necessità del ricorso a un giudice per ottenere la rettificazione anagrafica e la Corte, quindi, non se ne occupa. Va detto, peraltro che anche su questo l’Italia si avvia a rimanere sempre più isolata. Mentre attorno a noi alle persone trans* è sempre più pienamente riconosciuta la libertà di autodeterminarsi, nel nostro Paese continua ad essere necessario che un giudice valuti se quella persona “merita” la rettificazione anagrafica».

 

Le sentenze indicano le strade da percorrere ma il Parlamento raramente lo fa.
«Non è la prima volta e temo non sarà l’ultima, almeno per ora. Solo pochi giorni fa la Corte è dovuta tornare sulla materia della tutela della dignità alla fine della vita e la relazione annuale del Presidente della Corte costituzionale è ormai da tempo divenuta un triste elenco di inadempienze del legislatore, soprattutto in materia di riconoscimento e tutela di diritti fondamentali. Di fronte a un Parlamento così inerte abbiamo dimenticato, purtroppo, che la tutela dei diritti non è compito soltanto dei giudici: è soprattutto responsabilità della politica. Le Corti sono chiamate a correggere eventuali errori, tutelando il più possibile la libertà, la dignità e l’eguaglianza delle persone, nel solco della Costituzione. Non vedo però, nel breve periodo, la possibilità che il Parlamento dia seguito alle parole della Corte: anzi, mi pare che l’agenda del Governo e della maggioranza vada in una direzione del tutto opposta».