Uno straniero a Parigi

La provocazione del velo, le crisi diplomatiche e i record sospetti nei Giochi della politica

di Riccardo Romani   2 agosto 2024

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Il caso hijab contro bikini nel beach volley è sì l'affermazione di libertà di Marwa Abdelhady e Doaa Elghobashy. Ma anche uno dei tanti gesti strategici di queste tre settimane olimpiche. In cui intrighi sottobanco e propaganda spinta, rappresentano la regola. Il tutto spesso lontano dai riflettori

 Marwa e Doaa sono uscite dal campo felici neanche fosse l’ultimo giorno di scuola. Non che ci fosse molto da festeggiare. È stato di fatto il loro ultimo giorno di Olimpiade, coinciso con una sconfitta con le spagnole Liliana e Paula nel torneo di beach-volley. La partita è durata appena 36 minuti. Però faceva un bell’effetto vederle tuffarsi nella sabbia, coperte totalmente dalla divisa ufficiale egiziana, un hijab, maniche e pantaloni fino alle caviglie, neri. Una provocazione. Ma pure violazione delle regole CIO e delle leggi francesi, che vietano di indossare indumenti che richiamino ad una religione o un credo politico. Ma la partita vera di Marwa Abdelhady e Doaa Elghobashy non era sotto rete, piuttosto consisteva nel mostrare al mondo quello che pretendono di essere. La gioia è sgorgata davanti ai giornalisti – mentre frotte di fotografi le immortalavo accanto alle colleghe in bikini. Hanno annunciato la loro piccola rivoluzione, manco fossero Carlos e Smith che alzano in cielo un pugno stretto da un guanto nero a Messico ’68, come protestare contro la segregazione Afro-Americani.

 

“Voglio giocare col mio hijab e loro vogliono giocare col loro bikini. Che problema c’è? Io non dico a te cosa indossare e tu non dici a me cosa posso indossare. È un paese libero, no? Siamo stufe di questa discriminazione. È un messaggio politico? Naturalmente lo è. In ballo c’è la mia libertà, l’hijab è ciò che sono”.

 

Seguiranno provvedimenti disciplinari. In Francia il tema è incandescente e si rinfocola ad ogni buona occasione. L’Olimpiade è la madre di tutte le occasioni. Marwa e Doaa sapevano che non avrebbero vinto neppure un set, ma erano preparate a quella finestrella di tempo durante al quale il mondo si sarebbe fermato per prestare loro attenzione. Appena concluso la loro performance - da Amnesty International (pro hijab) alle organizzazioni di estrema destra francese (contro tutto ciò che non sia francese) – è scoppiato il finimondo social. Missione compiuta, Marwa e Doaa, costi quel che costi.

 

L’architrave del movimento olimpico, si delinea nel giuramento solenne che atleti e allenatori leggono pochi istanti prima di accendere la fiamma. È l’impegno a gareggiare con onestà, rispettando sempre l’avversario, senza fare uso di doping e di seguire le regole somme del Comitato, la politica fuori dai Giochi sempre e comunque. Più che un giuramento è puro illusionismo dialettico. L’Olimpiade è politica allo stato puro. Ogni gesto, ogni scelta, ogni simbologia risponde a una strategia politica. Sennò perché Putin avrebbe speso 50 miliardi per portare i Giochi invernali a Sochi nel 2014, poco prima di invadere la Crimea?

 

I Giochi si snodano durante tre settimane in cui crisi diplomatiche, intrighi sottobanco e propaganda spinta, rappresentano la regola. Il tutto spesso lontano dai riflettori.

In quanti si sono accorti che il 30 luglio è avvenuta la rottura delle relazioni diplomatiche tra Algeria e Francia, col ritiro da parte di Algeri del proprio Ambasciatore a Parigi? La ragione? Emmanuel Macron che approfittando del clima euforico, dopo la Cerimonia inaugurale, ha annunciato che la Francia concederà al Marocco l’autonomia ai territori del Western Sahara. Uno schiaffo in faccia al capo di stato algerino Abdelmadjid Tebboune, al quale Macron aveva garantito l’esatto opposto appena poche settimane fa a Borgo Egnazia.

 

E poi c’è la questione cinese che getta un’ombra sinistra sui Parigi 2024.

Pan Zahle, il nuotatore che ha polverizzato il suo stesso record sui 100 stile libero (ora un disumano 46”60) si porta in scia una serie di sospetti ingombranti. Ai Giochi di Tokio, tre anni fa, la WADA - organismo che dovrebbe vigilare sull’uso del doping nello sport - si fece clamorosamente “sfuggire” 23 nuotatori cinesi positivi ad un farmaco cardiaco. Alcuni di questi vinsero medaglie. La teoria più accreditata è che sia in atto uno scontro politico tra Usa e Cina che riguarda l’assegnazione dei Giochi del 2034 a Salt Lake City. In ballo parecchi miliardi. Crisi che si sarebbe attenuata attraverso un patto di non belligeranza: in cambio di un appoggio decisivo per Salt Lake City, i cinesi hanno ottenuto che gli americani – con molta influenza sulla WADA - la finissero di rompere le scatole con le accuse ossessive di doping contro Pechino, luogo dove le medaglie producono consenso.

 

David Popovici, il giovane fenomeno di Bucarest, primo oro della Romania alle Olimpiadi conquistato l’altro giorno nei 200 stile, è stato umiliato da Zahle nei 100. È cresciuto ad allenamenti sfinenti abbinati allo studio della filosofia. Dopo la sconfitta ha avuto un’improvvisa amnesia riguardo il giuramento dell’atleta. Ha prima ignorato il rivale cinese e subito dopo ha dichiarato: “Dico solo che si è innocenti fino a prova contraria”. Pensare alla squalifica che rischiano Marwa e Doaa fa una certa tenerezza.