Non si procederà contro i responsabili della missione Onu congolese in cui il diplomatico fu ucciso. Ma l’indagine prosegue e cerca moventi in affari loschi a cui la vittima si oppose

Le verità nascoste del delitto di Luca Attanasio s’impregnano di veleni e accuse irricevibili gettati sull’ambasciatore italiano, ucciso in un agguato nella Repubblica democratica del Congo il 22 febbraio 2021 assieme al carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, e all’autista del World Food Programme, Mustapha Milambo. Mentre in Italia si chiude definitivamente la possibilità di un processo per le responsabilità dei due dipendenti del Wfp, Rocco Leone e Mansour Rwagaza, che avevano organizzato la missione terminata tragicamente nella regione congolese del Nord Kivu, emergono documenti che riportano osservazioni diffamatorie di una contrattista della sede diplomatica italiana a Kinshasa nei confronti di Attanasio, mentre era capomissione, poi formalizzate davanti a un carabiniere addetto alla sicurezza dell’ambasciata, ma solo dopo la sua morte.

 

A Roma, nel frattempo, se la Procura non ha ritenuto che ci fossero i presupposti per impugnare la decisione del giudice dell’udienza preliminare, Marisa Mosetti, che ha disposto il non luogo a procedere per le accuse rivolte all’agenzia Onu, riconoscendo agli imputati l’immunità, il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha deciso di concentrare le indagini su un secondo fascicolo: quello relativo a movente, mandanti ed esecutori dell’imboscata. Che, per gli inquirenti in Congo, sarebbe stata un tentativo di sequestro finito male.

 

Sulla questione della mancata partecipazione come parte civile al processo il ministro Antonio Tajani, rispondendo a un’interrogazione parlamentare di Gadda (Italia viva) che chiedeva spiegazioni sul caso dell’uccisione dell’ambasciatore italiano in Congo ha affermato che: «il governo ha valutato che un'eventuale costituzione dello Stato come parte civile avrebbe esposto l’Italia a responsabilità internazionale per violazione delle norme Onu in materia di immunità. Norme che proteggono nostri diplomatici e militari all’estero, compresi – ha sottolineato con riferimento alla più calda attualità - quelli impiegati in Libano. La violazione di questi obblighi avrebbe comportato il rischio di un contenzioso con Onu che avrebbe potuto portare a una condanna davanti alla Corte internazionale di giustizia, con conseguenze su piano pratico e politico».

 

A fronte dei nuovi elementi dell’inchiesta portata avanti da L’Espresso – fatti oscuri avvenuti fuori e dentro l’ambasciata italiana a Kinshasa – si rafforza il quadro inquietante emerso finora. Atti che, seppure denunciati negli anni con esposti e relazioni di servizio, non sembra siano stati presi in considerazione dalla Farnesina. Come la denuncia di una dipendente, che per due volte ha reso informazioni spontanee su presunte irregolarità o tentativi di illeciti. Il ministero degli Esteri non ha fatto nulla per chiarire vicende che gettano ombre infamanti anche sull’operato di Attanasio, che quel sistema voleva contrastare. Forse per evitare di scoperchiare un vaso di Pandora.

 

 

L’unica azione della Farnesina, in risposta ai fatti descritti da un imprenditore italo-congolese e riportati da L’Espresso nel settembre 2023, è stata un’ispezione disposta nelle sedi diplomatiche di Kinshasa e Congo Brazzaville. Dalla presunta gestione illecita dei visti alla missione degli ispettori ministeriali nell’ottobre 2023 che ha portato alla chiusura dell’ufficio addetto (anche se la documentazione da cui era possibile accertare gli illeciti passati era stata distrutta e dunque si è puntato su irregolarità minori per fornire un capro espiatorio), fino ai “problemi” legati alla contabilità, con fondi mai registrati spariti e permute gonfiate per trarne profitto, emerge un contesto malsano che perdurava da anni.

 

Secondo quanto denunciato in vari esposti depositati presso il Tribunale di Kinshasa, e arrivati anche a ministero e Procura di Roma, collaboratori e funzionari della nostra sede diplomatica – attualmente non più operativi – avrebbero rilasciato visti dietro pagamento di cifre che oscillavano dai 5 ai 6 mila dollari. Che qualcosa di poco lecito avvenisse intorno alle attività consolari è testimoniato anche da alcune relazioni di servizio trasmesse al ministero tra il 2019 e il 2022 dai carabinieri del nucleo di sicurezza e vigilanza (in servizio quadriennale). In particolare, emergono notizie su funzionari ministeriali congolesi che hanno tentato di far recapitare buste con centinaia di dollari, per ragioni non chiare, a un referente dell’ufficio consolare italiano, il quale aveva segnalato la cosa. Come aveva fatto il successore di Attanasio, l’ambasciatore Alberto Petrangeli, denunciando un tentativo di corruzione attraverso un messaggio sulla sua utenza WhatsApp.

 

«Sono stato testimone di un continuo passaggio di soldi di dubbia provenienza in quell’ambasciata, l’ho anche denunciato alle autorità competenti, ma nessuno ha mai fatto niente. E oggi mi chiedo perché non si sia collegata la morte di Attanasio a questi fatti», sostiene la nostra fonte che fa nomi e cognomi di persone di cui non diamo conto essendo le indagini in corso. In particolare, si cita un funzionario il cui nome ricorre in vari esposti e in una relazione dei carabinieri dell’ambasciata di Kinshasa, che lo avevano sorpreso mentre lasciava la sede diplomatica con una borsa piena di passaporti. «La magistratura italiana dovrebbe andare più a fondo. Anche se molte carte sono sparite, ci sono numerose persone che hanno lavorato a contratto o che ancora lavorano in ambasciata a conoscenza di fatti illeciti. Vicende che potrebbero spiegare gli ipotetici moventi dell’agguato all’ambasciatore. Per l’uccisione di Attanasio, Iacovacci e Milambo bisogna cercare altri colpevoli, non quelli condannati nel processo farsa di Ndolo», conclude la fonte.

 

Sono tanti gli interrogativi intorno al triplice delitto che non hanno avuto risposte. Oggi questi nuovi elementi, che fanno comprendere il clima ostile intorno ad Attanasio, rinvigoriscono i sospetti dei familiari delle vittime, in primis di Salvatore Attanasio, padre di Luca, e di Dario Iacovacci, fratello di Vittorio, convinti da sempre che l’assassinio dei loro cari non sia stato un sequestro finito male. La domanda, dunque, sorge spontanea: perché, nonostante si rincorrano da tempo voci e notizie sulle azioni poco limpide di alcuni soggetti che operavano in ambasciata, il ministero non è intervenuto per dissipare la nebbia su un ambasciatore morto nello svolgimento delle sue funzioni? Su quanto scritto e documentato finora, abbiamo chiesto più volte un confronto con gli uffici competenti della Farnesina. Inviti declinati con «rinvio» al servizio stampa. Prevale la logica del silenzio. Resta la speranza, contrariamente alle sorti del procedimento a carico dei funzionari del Wfp, che i fatti gravi presenti nel secondo fascicolo aperto dalla Procura di Roma sull’omicidio di Attanasio e Iacovacci non vengano in fretta archiviati.