«Tutti abbiamo sbagliato. Chiedo perdono non per cose che non ho fatto, ma per tutto quello che è successo in quegli anni». Sei del pomeriggio del 4 aprile 2025, palazzo di giustizia di Roma: Jorge Fernandez Nestor Troccoli – classe 1947, di Montevideo, Uruguay – ha appena finito di rilasciare spontanee dichiarazioni al termine dell’interrogatorio, durato oltre sei ore. È davanti ai giudici della Corte d’Assise per rispondere dei crimini compiuti quando era comandante della branca dell’intelligence interna al Fusna, il reparto dei fucilieri della Marina uruguayana, durante la dittatura militare. Troccoli – queste le accuse – avrebbe torturato e ucciso gli oppositori nell’ambito del Piano Condor, il patto stretto negli anni Settanta tra le polizie segrete di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, con la collaborazione degli Stati Uniti, per eliminare ogni forma di dissenso in quei Paesi.
Come ha spiegato al processo Francesca Lessa, professoressa Studi Latini Americani e Sviluppo Internazionale a Oxford, dopo il primo colpo di Stato in Paraguay, nel 1954, c’è stato un effetto “palla di neve” che portò praticamente tutti i Paesi dell’area sotto il controllo di governi dittatoriali. Tra novembre e dicembre del 1975 a Santiago del Cile, il colonnello Manuel Contreras, capo della direzione nazionale di Intelligence cilena, invita i suoi omologhi degli Stati vicini. Obiettivo della riunione, come emerge dal cosiddetto Archivio del Terrore – ritrovato alla periferia di Asuncion in Paraguay nel 1992 – era quello di creare un sistema regionale per difendersi dalla “minaccia rossa”. Questo il patto fondativo del Piano Condor, ritrovato da ricercatori per i diritti umani dentro gli uffici del ministero degli Esteri del Cile. Tra i punti principali, l’impunità totale per il sequestro, la tortura e l’omicidio degli esuli che si spostavano da un Paese all’altro.
In Uruguay, il ruolo principale lo giocava l’Ocoa, Organismo coordinatore delle operazioni Antisovversive, creato nel 1971 e che gestiva tre carceri a Montevideo. A questo organismo si aggiunse il Fusna, che collaborava strettamente con l’Esma argentina e che aveva due sezioni principali: S2 che si occupava della raccolta delle informazioni e S3 che era il braccio operativo. Dal febbraio del 1976 ai primi mesi del 1978 a capo del reparto S2 ci fu proprio Nestor Troccoli che, per la prima volta, lo scorso aprile, è apparso in un’aula di giustizia italiana. Scappato dal suo Paese nel 2007, era arrivato a Battipaglia, in provincia di Salerno, sfruttando la nazionalità italiana.
Nel procedimento in corso, che arriverà alla sentenza di primo grado a ottobre di quest’anno, l’ex comandante è imputato dell’omicidio di tre attivisti: Rafaela Giuliana Filippazzi, di nazionalità italiana, Augustin Potenza ed Elena Quinteros. I resti dei primi due sono stati rinvenuti ad Asuncion, in Paraguay, nel 2013, mentre il corpo di Quinteros non è mai stato ritrovato. Ma, negli archivi del famigerato Fusna, sono venute alla luce le schede che testimoniano un loro passaggio nella struttura della morte.
Elena Quinteros era una maestra uruguaiana, militante del “Partito per la Vittoria del Popolo”, creato in Argentina da esuli uruguayani. Faceva, clandestinamente, volantinaggio, supportava le famiglie dei prigionieri politici ed era uno degli elementi di collegamento del partito da uno Stato all’altro. Sequestrata in casa il 24 giugno del 1976, per liberarsi finse di portare gli agenti delle forze di sicurezza a un appuntamento con un compagno di lotta, per incastrarlo. Ma, quando arrivò nei pressi dell’ambasciata del Venezuela, riuscì a entrare nel giardino, confidando nella protezione internazionale. I militari uruguayani però entrarono e la portarono via con la forza. Di lei non si seppe più nulla.
A maggio successivo, invece, il sequestro in un hotel di Montevideo dei coniugi Rafaela Giuliana Filippazzi e Augustin Potenza. Portati in una prigione del Fusna, vengono poi imbarcati in un aereo diretto ad Asuncion, in Paraguay dove verranno uccisi.
Se qui per la sentenza bisognerà aspettare l’autunno, Troccoli ha già ricevuto una condanna a vita, passata in giudicato, nell’ambito di un altro processo per gli stessi crimini. Aperto a Roma nel 2015 e conclusosi in Cassazione nel 2021, ha visto condannare all’ergastolo 24 militari uruguaiani, cileni, boliviani e peruviani per l’uccisione di 43 vittime di origine italiana.
A impegnarsi da oltre 30 anni per portare alla sbarra gli aguzzini c’è Jorge Ithurburu, presidente dell’associazione 24marzo. Ha militato nella Lega per i Diritti dei Popoli di Milano ed è stato – lo è tuttora – procuratore speciale per le parti civili nei processi contro i torturatori sudamericani. «Verso la fine degli anni Novanta – racconta – sono cominciati i grandi processi, anche perché viene fuori il coordinamento dietro al Piano Condor. Poi, in Argentina e in altri Paesi, in passato c’era una legge che garantiva impunità per i crimini commessi durante le dittature. Così abbiamo puntato sulla loro doppia nazionalità italiana per processarli qui». Come per Troccoli.
Ithurburu ha sempre raccolto il grido di sofferenza inascoltato di chi ha visto scomparire un amico, un compagno, un figlio senza mai più rivederlo. «Anche se sono passati tanti anni – conclude – è importante che vegano i testimoni a raccontare quello che è successo, che i giudici sentano il dolore che c’è stato. È un segno di giustizia per i familiari che vengano celebrati i processi».