Ci sono pugni che non fanno statistica, non importa quanto forti. La notte del primo giugno, proprio all’inizio del mese del Pride, tre ragazze trans sono state malmenate, insultate, umiliate e derubate da un gruppo di uomini. È successo a Roma, fuori da un locale nella zona di Piazzale delle Province. Un attacco che per una di loro, Giulia Onofri, ha riaperto ferite non ancora rimarginate. Era già stata vittima di un’aggressione transfobica nell’agosto del 2024. Nessuno aveva pagato, nessuno aveva agito. Dopo le botte, il silenzio.
È probabile che vada così anche questa volta, perché la transfobia nei dati ufficiali non esiste. Non è contemplata nel Codice penale come aggravante e non ha una definizione autonoma nei report governativi. È una forma di violenza a cui lo Stato preferisce non dare un nome. Eppure, secondo le stime dell’associazione Transgender Europe, l'Italia è il Paese europeo con più omicidi di persone trans negli ultimi 15 anni e si colloca al 21esimo posto su 27 in termini di diritti e tutele nei diversi ambiti della vita. A incidere sull’indicatore sono l’assenza di leggi che puniscono i discorsi d’odio e la mancanza di protezioni contro le discriminazioni sul lavoro, nell’assistenza sanitaria, nell’istruzione e nell’accesso a beni e servizi. Il tutto si inserisce in un contesto politico determinato a smantellare ogni conquista. Negli ultimi due anni, il governo ha rifiutato di sottoscrivere la dichiarazione dell’Unione europea a sostegno delle persone Lgbt, ha ostacolato le carriere alias, censurato l’uso del linguaggio neutro nelle scuole e attaccato gli studi di genere. L’ultimo tentativo di intervenire contro l’omotransfobia è stato il ddl Zan, affossato in Parlamento quattro anni fa, tra esultanze da stadio e applausi. E intanto, per le persone Lgbtqia+, l’Italia è un Paese sempre più insicuro. Pochi giorni dopo il pestaggio transfobico, sempre a Roma, una coppia gay è stata aggredita con calci, pugni e bastonate, solo per essersi scambiata un bacio in strada.
«Il clima politico in Italia oggi è tossico. Non solo ostile, ma disumanizzante. Non siamo più viste e visti come persone», denuncia Christian Leonardo Cristalli, responsabile nazionale politiche trans di Arcigay. «Nei primi mesi del 2025 abbiamo registrato circa 20 episodi di aggressioni o molestie transfobiche. E sono solo quelli che emergono. Moltissime persone non denunciano». L’ultimo caso è quello di un seggio elettorale a Varese. A una scrutatrice è stato chiesto perché non fossero state eliminate le file divise per genere, come previsto dalla nuova normativa. La donna ha risposto riferendosi alle persone trans come «degli scarti che vanno eliminati».
«Abbiamo sempre più paura, molte persone hanno difficoltà a partecipare ai nostri gruppi di auto-mutuo aiuto, perché temono di tornare a casa di sera», racconta Antonia Monopoli, responsabile dello Sportello Trans di Ala Milano Onlus. «Io stessa», aggiunge «mi guardo intorno con più attenzione rispetto a qualche anno fa. Il governo di oggi ha legittimato l’odio». Eppure, dal basso è in aumento la richiesta di servizi: «Sempre più genitori accompagnano figli minorenni. Vogliono sapere, essere informati, seguire il loro percorso in modo consapevole». Ma senza supporto istituzionale, è difficile rispondere alle esigenze della comunità.
La sospensione della triptorelina all’ospedale Careggi di Firenze è un caso emblematico. Dopo un'interrogazione parlamentare del senatore Maurizio Gasparri e un’ispezione ministeriale avvenuta a gennaio 2024, la direzione sanitaria ha deciso di interrompere la prescrizione del farmaco, usato per sospendere temporaneamente la pubertà nei minori con incongruenza di genere. Una scelta che ha ignorato sia le linee guida dell’Aifa sia il parere positivo del Comitato Nazionale di Bioetica. «Collaboro con endocrinologi e terapeuti in Lombardia. Per il momento non abbiamo accesso diretto alla triptorelina, ma è fondamentale per gli adolescenti trans. È un farmaco che può salvare vite, è dimostrata la sua efficacia nel ridurre il rischio di suicidio», spiega Monopoli.
Le linee guida per regolare i percorsi di affermazione di genere sono state ridefinite da una commissione di ventinove membri istituita dai ministri della Salute Orazio Schillaci e della Famiglia, natalità e pari opportunità Eugenia Roccella. Ventinove persone, nessuna proveniente da associazioni trans. «È un tavolo fatto su di noi, ma senza di noi», commenta Christian Leonardo Cristalli. «Abbiamo chiesto di partecipare, portando saperi ed esperienze di comunità, ma ci è stato detto di no. È un’imposizione ideologica». «Non ci hanno nemmeno chiesto un parere», aggiunge Antonia Monopoli. «Non si confrontano con chi lavora davvero sul campo, con chi conosce i bisogni delle persone».
Ignorare il lavoro delle realtà associative significa anche non voler accorgersi di quanto questo sia prezioso e, al contempo, fragile. Spesso si regge grazie all’impegno dei volontari: «Coordino Casa Salani a Bologna, la prima casa arcobaleno metropolitana», spiega Cristalli. «Offriamo rifugio a persone trans che hanno perso tutto. Ma viviamo solo di donazioni. A lungo andare non è sostenibile». Anche i pochi progetti pubblici destinati alle comunità trans rischiano di essere dismessi in blocco. «Abbiamo partecipato a un bando Unar da 18 mesi. Durante l’ultima riunione un membro dello staff della ministra Roccella ci ha detto chiaramente che non ci saranno proroghe. Ma senza fondi, non possiamo andare avanti. Dopo questa scadenza, saremo allo sbaraglio. È una chiusura programmata», racconta Monopoli.
Tra dati non raccolti, reati non riconosciuti e presidi che si sgretolano, la politica ha reso le persone trans sempre più invisibili. E in quella invisibilità costruita con metodo, alimentata dal silenzio istituzionale, la violenza non è un’eccezione, ma l’esito inevitabile.