Salute
29 ottobre, 2025Reddito e residenza determinano l’accesso alla sanità. Perché i Lea non sono garantiti ovunque e la spesa cala in rapporto al Pil. Come spiega Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe
Quaranta ore di attesa in pronto soccorso. Otto mesi per un referto istologico. Due ore per un’ambulanza che non arriva. In Italia, sempre più spesso, la differenza tra vivere e morire non dipende dalla malattia, ma dalla capacità del sistema sanitario di rispondere. E oggi, quel sistema, troppo spesso, non risponde più.
A dimostrarlo non sono soltanto i numeri ma le storie di chi ha perso la vita. Storie come quella di Cristina Pagliarulo, 41 anni, morta al Ruggi di Salerno dopo quaranta ore di attesa. L’autopsia è stata lapidaria: morte «prevedibile e prevenibile», ritardo «oltre il margine di errore accettabile». Poi c’è la storia di Serafino Congi, 48 anni, ha avuto un infarto a San Giovanni in Fiore. In ospedale c’era un solo medico per coprire un turno che ne prevedeva sei. Niente ambulanza, niente elisoccorso: per ore ha aspettato un mezzo da Cosenza. Quando è arrivato, era troppo tardi. Serafino è morto.
Maria Cristina Gallo, 56 anni, si era sottoposta a una biopsia nel 2023. Il referto è arrivato dopo otto mesi: otto mesi in cui il tumore è avanzato. Aveva denunciato pubblicamente i ritardi dell’Asp di Trapani. Non è bastato: è morta anche lei.
E infine c’è il caso di M.E., giovane mamma romana: risonanza magnetica cardiaca urgente, nel pubblico 6 mesi di attesa, nel privato accreditato due giorni e 400 euro, più di metà del suo stipendio da precaria. Il messaggio è chiaro: o paghi, o aspetti. E aspettare, in troppi casi, significa morire.
Quattro storie, che non sono eccezioni ma il sintomo di un sistema al collasso. Eppure il governo Meloni si vanta di aver destinato alla sanità «risorse record». Una narrazione che crolla davanti ai numeri dell’8º Rapporto Gimbe che certificano il disastro di un sistema che cresce solo sulla carta: il Fondo sanitario infatti è aumentato ma solo nominalmente, da 125,4 miliardi del 2022 a 136,5 miliardi nel 2025, ma in rapporto al Pil la quota è scesa dal 6,3% al 6,1%. Uno scostamento apparentemente minimo che corrisponde a una perdita complessiva di 13,1 miliardi sottratti alla salute pubblica. E le conseguenze si vedono nelle corsie, nei pronto soccorso, nelle liste d’attesa: oltre 5,8 milioni di italiani nel 2024 hanno rinunciato a una prestazione sanitaria per motivi economici. Uno su dieci.
La spesa sanitaria a carico delle famiglie ha toccato i 41,3 miliardi di euro, pari al 22,3% della spesa totale. Per chi è povero, rinunciare alle cure significa rinunciare alla salute. E quando le risorse mancano, a pagare sono i cittadini. Con l’attesa. Con la rinuncia. Con la vita. Ma la crisi sanitaria non colpisce tutto il Paese allo stesso modo.
L’aspettativa di vita certifica questo divario: 84,7 anni nella provincia di Trento, 81,7 in Campania. Il risultato è un’Italia spaccata in due.
Anche la mobilità sanitaria racconta il fallimento del sistema: nel 2022 oltre 5 miliardi di euro sono serviti a curare cittadini del Centro e del Sud nelle Regioni del Nord — Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Il 78,8% dei pazienti costretti a spostarsi proviene da sei Regioni, in gran parte governate dalle destre: Abruzzo, Calabria, Sicilia, Lazio, a seguire Campania e Puglia. Non va meglio per i Lea. Nel 2023 solo 13 Regioni rispettavano i Livelli essenziali di assistenza, le prestazioni che dovrebbero essere garantite a tutti i cittadini.
Non cresce solo il privato convenzionato: tra il 2016 e il 2023 la spesa delle famiglie per strutture del privato “puro” è aumentata del 137%, da 3 a oltre 7 miliardi di euro. Intanto il Pnrr che doveva essere la svolta, è fermo: solo il 12,7% delle Case di comunità è pienamente operativo e appena il 2,7% ha personale completo. Mancano 5.500 medici di base, 500 pediatri e migliaia di infermieri, sempre più attratti dal privato o dall’estero.
Così mentre il centrodestra smantella il Servizio sanitario nazionale costringendo i cittadini verso il privato: la salute si trasforma da diritto costituzionale a privilegio riservato a chi può permetterselo. E il progressivo espandersi del privato è una conseguenza di scelte politiche?
«Più che da un disegno esplicito – dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – è il frutto di una lunga serie di omissioni e negligenze politiche che hanno portato al progressivo indebolimento del Ssn. Il risultato è un ecosistema misto dove l’offerta pubblica arretra e quella privata si espande, provando a colmare le carenze, ma al prezzo di una crescente disuguaglianza nell’accesso alle cure. Infatti, ad espandersi in maniera rilevante non è più il privato convenzionato, ma quello “puro”: dove un erogatore privato sostenuto da capitali privati crea un secondo binario solo per chi può permettersi di pagare di tasca propria».
Ma cosa significa veramente, al di là dei numeri, vivere in una regione dove i Livelli essenziali di assistenza non sono garantiti? Cartabellotta non ha dubbi: «Significa avere un accesso limitato e spesso inaccettabile alle cure. Significa attendere mesi per una visita o un esame, spostarsi in un’altra Regione per ricevere assistenza, essere costretti a rivolgersi al privato a pagamento o addirittura rinunciare alle prestazioni per motivi economici. È la quotidianità di chi vive sulla propria pelle le conseguenze di un sistema che non riesce a garantire in modo uniforme i diritti sanciti dalla Costituzione. Per chi è più fragile o in condizioni economiche precarie, questo si traduce in un peggioramento concreto della salute e della qualità della vita».
E il continuo ricorso al privato influenza inevitabilmente anche la fiducia dei cittadini nel sistema pubblico. «In modo profondo – continua il presidente di Gimbe – Quando i cittadini percepiscono che il sistema pubblico non è più in grado di rispondere in tempi adeguati e con qualità ai loro bisogni di salute, la fiducia si sgretola inesorabilmente. Il crescente ricorso al privato non è sempre una scelta libera, ma spesso una necessità imposta dalle circostanze. E quando curarsi diventa un privilegio riservato a chi può permetterselo, la sanità pubblica perde la sua natura universalistica e si trasforma in un sistema selettivo. Un circolo vizioso che mina il patto sociale tra cittadini e Stato, alimenta la sfiducia verso le istituzioni e corrode alla radice il principio di equità su cui il Ssn è stato costruito».
Che sia un problema essenzialmente di risorse è evidente dall’analisi dell’andamento delle prestazioni in ragione del reddito e del luogo di residenza. «Serve innanzitutto – aggiunge Cartabellotta – un deciso rifinanziamento pubblico del Servizio sanitario nazionale, in linea con i bisogni reali di salute della popolazione e con i livelli di spesa dei Paesi europei più avanzati. Ma le risorse da sole non bastano, non sono sufficienti. Occorre parallelamente un piano di riforme strutturali per aggiornare e garantire l’uniforme erogazione dei Livelli essenziali di assistenza su tutto il territorio nazionale, integrare realmente assistenza ospedaliera, territoriale e socio-sanitaria, restituire attrattività professionale ed economica ai professionisti sanitari, attuare una piena digitalizzazione del Ssn, rivedere i criteri di riparto del fondo sanitario, oltre che dei Piani di rientro e dei commissariamenti. Senza una governance nazionale forte e condivisa, il rischio concreto è quello di un sistema a più velocità, dove il diritto costituzionale alla salute dipende sempre più dal codice di avviamento postale, dalla fortuna di essere nati dalla parte giusta del Paese».
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