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31 ottobre, 2025Articoli correlati
Le società "innovative" sono tante e hanno creato un mercato miliardario, ma sono piccine e spesso preda dei colossi stranieri (perlopiù americani). In Italia (e in Europa) si investono spiccioli. Il governo sonnecchia. Ignorati sia Draghi che Bankitalia. Ecco lo studio dell'Ufficio valutazioni e impatto del Senato
Ah, che belle le start-up. Daje, l’Italia ha sete di start-up. Ehilà, ci sono tanti soldi per le start-up. Ormai le start-up sono finite nel catalogo – sempre più sterminato e aggiornato – del politicamente corretto, del perbenismo gratuito. Anche per una semplice ragione: è un argomento che riempie, satura, e spesso chi ne parla non sa nulla di cosa parla. Ci aiuta a capire, e soprattutto a scoprire, uno studio dell’Ufficio valutazione impatto (Uvp) del Senato che L’Espresso ha letto in anteprima.
Il documento condensa le analisi del professore universitario nonché ex dirigente ministeriale Giuseppe Capuano: le start-up italiane non sono né poche né ferme, ma sono troppo piccine e allevate male, dunque non riescono a crescere, a competere e diventano, una volta nutrite con denaro pubblico, facile preda dei mercati più grossi. Quello americano in special modo. Ancora prima di capire, è utile mettersi d’accordo sul significato di start-up innovativa, e lo fa in maniera ineccepibile l’Accademia della Crusca: «È una nuova impresa, tecnologicamente avanzata, che, a partire da un’idea iniziale e piccoli capitali, si mette in cerca di un assetto organizzativo ed economico e di investitori che credano nel suo progetto industriale e finanziario». Tutto ciò che oggi riguarda le start-up in Italia lo si deve alla legge n. 221 del 17 dicembre 2012 che convertì un decreto di ottobre del governo tecnico di Mario Monti. In quella stagione, e da allora a livello normativo è successo davvero il niente, Fratelli d’Italia aveva una settimana di vita, Matteo Salvini non era stato ancora eletto segretario della Lega, i Cinque Stelle non erano entrati in Parlamento, Matteo Renzi era il giovane sindaco di Firenze eccetera, eccetera. Il tempo ne ha frullati di capi o presunti tali, ma l’innesco per le start-up – poi ci sono stati altri fuocherelli, certo – lo si deve a Monti.
Per definire una start-up innovativa vanno soddisfatti tre indicatori: una cospicua spesa per la ricerca e lo sviluppo; un terzo di dottorandi o ricercatori; brevetti o programmi originali e registrati. Questo ha prodotto la nascita di 1.508 società nel 2013, lievitate a 8.315 nel 2017, 11.983 nel 2020, 14.264 nel 2022, si scende a 13.394 nel 2023 con un valore del settore di 2,170 miliardi di euro. Nell’ultimo triennio, assorbite le spinte alla ripresa dopo la pandemia, le start-up sono sostanzialmente stabili in numero e di valore. Vuol dire che l’Italia ha raggiunto la sua dimensione.
La distribuzione territoriale è abbastanza sorprendente: scontato il predominio della Lombardia (la più popolosa) con il 27,7 per cento del totale italiano (pari all’intero Sud) e scontato il secondo posto per il Lazio, va notata la presenza sul podio della Campania che incide quanto il Piemonte e il Veneto messi assieme. «Ha un ambiente imprenditoriale dinamico per le università di Napoli e Salerno, per i centri di ricerca e per il distretto aerospaziale», spiega l’Uvp. Una start-up su due offre servizi di informazione e comunicazione, una su quattro si dedica ad attività professionali tecniche e scientifiche. Prevedibile. Come purtroppo prevedibile è il limite congenito italiano: il 61 per cento delle start-up non supera i 100mila euro di fatturato, difatti quasi il 97 per cento ha meno di 9 addetti; soltanto in 500 vanno oltre il milione di euro incluse quattro prodigiose società collocate nella fascia 10-50 milioni. Il problema è finanziario: la scarsa disponibilità di capitale di rischio (venture capital). Tra il 2013 e il 2024, un decennio determinante per assumere un ruolo nel mondo, in capitale di rischio gli Stati Uniti hanno investito 1.500 miliardi di euro, l’Europa un terzo con 489 miliardi, l’Italia appena 8 e continua a tagliare passando da 1,1 miliardi nel 2023 a 623 milioni nel 2024. L’Uvp nota che la maggior parte dei fondi per le start-up proviene dalle banche non «inclini a rischiare».
Il professor Capuano menziona due ricette proposte e non ancora accolte da Palazzo Chigi e dall’Unione Europea. Quella del governatore Fabio Panetta di Bankitalia: ridurre gli squilibri del mercato finanziario, aumentare la spesa pubblica, potenziare gli incentivi fiscali. E poi quella di Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività (le start-up innovative sono citate 69 volte): snellire il sistema burocratico, introdurre uno statuto legale unico europeo, spingere a internazionalizzare, rafforzare l’ecosistema finanziario. Il 40 per cento dei cosiddetti unicorni europei, cioè le start-up con un valore superiore al miliardo di euro (come palese, una statistica che non interessa l’Italia), ha trasferito la propria sede negli Stati Uniti.
In Italia le risorse sono sparpagliate. C’è il fondo di garanzia che, in un decennio, ha mobilitato 3,4 miliardi di euro. C’è il fondo nazionale innovazione, creato presso la Cassa depositi e prestiti dal governo Conte II, con una dotazione di 1 miliardo incrementata a 4,2 e gestita tramite 13 veicoli finanziari. Al momento i soldi si sono concentrati su transizione digitale e verde, poi aerospazio e robotica con il 74 per cento al Nord. Nel Pnrr ci sono altri 650 milioni di euro complessivi. Le detrazioni fiscali sugli investimenti hanno impegnato 900 milioni. In Italia le start-up sono costrette a rimanere piccine perché faticano ad accedere al credito e perché, e non va sottovalutato, si muovono in un contesto stracolmo di burocrazia e procedure e lacunoso di infrastrutture digitali. Il denaro pubblico per le start-up da Monti in poi è stato necessario e certamente non sufficiente, chi ne ha beneficiato ha generato valore, ma che farsene se raramente siamo in grado di eccellere? Non per la moltitudine di convegni e seminari che si organizzano sul tema, ma per la crescita economica nazionale che, come hanno spiegato i premi Nobel per l’Economia, viene maggiormente «trainata dall’innovazione». Non vi è dubbio, qui però vengono trainati maggiormente i buffet.
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