Attualità
4 novembre, 2025Massoni, cinesi, imprenditori, inchieste, ricatti, foto hard, corruzione. Nell'antica capitale del tessile italiano gli scandali hanno decapitato la sindaca Pd e spaccato Fratelli d'Italia. E sembra la punta dell'iceberg
Adesso che per la prima volta la città si ritrova commissariata, e senza sindaco, la raccontano come «sbigottita», «stordita», «sospesa», ma a Prato niente è per caso, una suggestione tira l’altra, tutto si sovrappone e si ingarbuglia, come accade a uno straccio disfatto. Ad esempio, il compasso marmoreo che in piazza del Duomo, nel semideserto imbrunire di un lunedì di quasi inverno, troneggia alla base della statua, scolpita da Alessandro Lazzerini, raffigurante il triumviro e gran maestro Giuseppe Mazzoni, a cento passi dal Comune commissariato, è lo stesso compasso che campeggia pure in via Alessandro Lazzerini 73, sulla targa del portone della sede della Gran loggia d’Italia, la casa delle sette logge pratesi della Alam, tra cui la loggia Sagittario al centro degli scandali che, prima da sinistra, poi da destra hanno scosso la città come forse non è accaduto mai. La magistratura l’ha fatta perquisire a inizio settembre, sequestrando elenchi e la città attende le conseguenze trattenendo il fiato: chi salterà fuori? La porta di via Lazzerini è chiusa, il cancello è serrato, e così su quattro lati le finestre di questo villino super ristrutturato in mezzo a palazzoni e palazzotti del quartiere Soccorso, fuori dal centro: il via vai si concentra la sera, schermato da teloni, raccontano i vicini. Le logge sono nel rispettabile numero di 13 su 193 mila abitanti, ha calcolato Thomas Mackinson sul Fatto: insomma una forma di normalità. Ma ovviamente i gran maestri di allora non hanno nulla in comune con quelli di oggi. Quasi nient’altro, del resto, è allo stesso livello che fu, nell’antica capitale del tessile italiano, tutt’ora più grande distretto tessile d’Europa, ma è un’altra cosa. C’è qualche pratese che lo ammette, ma guai a dirglielo.
A un certo punto di questa estate, quando da qui arrivavano più notizie che da Milano – accuse di corruzione, la sindaca democratica Ilaria Bugetti definita in intercettazioni il «mio attrezzo» e travolta da avviso di garanzia, imprenditori ex gran maestri come Riccardo Matteini Bresci finiti sotto inchiesta (per la seconda volta), e poi ricatti tentati a destra, foto hard, adombrata pedofilia, la classe dirigente giovane di Fratelli d’Italia fiore all’occhiello del toscano Donzelli azzoppata, consiglieri comunali come Tommaso Cocci rivelatisi massoni in sonno, oppure indagati per revenge porn come Claudio Belgiorno, il tutto sullo sfondo diciamo pre-politico di squartamenti in Chinatown, guerra delle grucce, sequestri di migliaia di giocattoli irregolari, evasioni rocambolesche di boss cinesi poi ripescati a Barcellona, una frode da 43 milioni di euro per vendita di auto tedesche di lusso – insomma in mezzo a tutto questo bailamme qualcuno ha anche definito Prato una specie di Gotham city, una capitale del crimine. Facendo infuriare il dem Matteo Biffoni, due volte sindaco prima di Bugetti, adesso appena eletto consigliere regionale con un numero record di preferenze (22 mila su 33 mila voti che ha preso il Pd nella circoscrizione) perché, come ha scritto in un post, «Prato è casa nostra, la nostra città » ed «è il momento di invertire la narrazione».
«A Prato per essere Gotham city manca soltanto Batman», è però il commento fulminante tra quelli raccolti tra i pratesi, giusto per dire del clima. A toccarla da vicino, Prato reagisce come il telaio impazzito di “Madonna che silenzio c’è stasera”, vale la pena rivedersi la scena. Anche perché appunto, lo scivolamento nel silenzio è dietro l’angolo, tendenzialmente. E anche in questo si racconta un pezzo dell’Italia di oggi: per lo più sospesa, stordita, spaesata, ma forse nello stesso tempo pronta a reagire, se toccata.
«Con queste inchieste è saltato fuori che tipo di potere abbia l’imprenditoria pratese, quella che per anni ci hanno spacciato solo come distretto dell’eccellenza», racconta Francesca Ciuffi di Sudd Cobas, sindacato di nuovo conio (2018), piccolo da mille iscritti ma combattivo, ultima battaglia quella per i lavoratori di Alba, balzata sulle prime pagine quando la titolare ha preso a pugni chi scioperava e adesso oggetto di una vertenza in cui si cerca di puntare anche sulla responsabilità dei committenti: «Il sistema di sfruttamento delle filiere che vediamo oggi a Prato si è potuto costruire grazie a una rete di interessi che ha coinvolto tutti, un’intera città che si è messa al servizio. Bene che oggi si parli anche di mafia, ma fino a poco tempo fa, quando lo facevamo, chi governava la città diceva queste parole non vanno usate perché si rovina l’immagine. È un intero sistema che va cambiato».
Il sollievo di poter dire ora che il re è nudo, con le inchieste del procuratore Luca Tescaroli a fare da apripista, lo racconta Vittoria Ciolini, direttrice di Dryphoto arte contemporanea, spazio no profit che dalla fine degli anni Settanta lavora a mettere in connessione l’arte con le persone, ad aprire dialoghi, a partire dal territorio: da quindici anni hanno sede nella Chinatown, il cosiddetto Macrolotto zero. Tra via Pistoiese e via Filzi, là dove i cinesi hanno comprato non solo le case ma pure le ville e sembra di stare a Shangai, le insegne dei negozi sono mezze ideogrammi mezze italiano, la via principale febbrile, le retrovie solcate dagli olezzi delle verdure a macerare in cassette di polistirolo come dagli spurghi dei pescivendoli dove campeggiano inumane quantità di granchi ammonticchiati in attesa di diventare ravioli al vapore. In mezzo a questo caos, Ciolini racconta gli esperimenti di integrazione riusciti, come in piazza dell’Immaginario, e quelli poi refluiti nel nulla: i giardini tornati privati (e degradati), le piazze ridiventate parcheggi per miopia amministrativa. Di una città, quella pratese doc, che non ha alcuna voglia di integrare chi è arrivato dalla Cina. Ma anche di comunità straniere difficili da accostare perché, se nessuno fa luce, se non si dice chiaramente che c’è la mafia cinese ma anche quella italiana, la camorra, la ’ndrangheta, è difficile capire fino a che punto siano lunghe le mani delle varie criminalità. In effetti, nel palazzo a due piani accanto alla sede di Dryphoto, un cartello eccezionalmente scritto a mano in italiano recita: «Non mettere macchine, caduta sassi». Una scritta che il senso comune collocherebbe a Reggio Calabria, a Caserta, a Messina, a Foggia.
È come se si trattasse di città diverse, realtà doppie, piani tra loro non comunicanti. Lo si vede alle elezioni: una città che dal punto di vista demografico è giovane, dal punto di vista di chi vota diventa improvvisamente vecchissima. «Gli elettori a Prato sono circa 126 mila ma, tra i residenti, nella fascia tra i 18 e i 29 anni quasi uno su tre non può votare perché non ha la cittadinanza, e tra i 30 e i 49 anni questa percentuale sfiora il 40 per cento. Oltre i 60 anni, invece, sono tutti italiani e votano», racconta Lorenzo Tempestini, giornalista anima del progetto Buzz Prato, dedicato alla città. In pratica, sommando chi non può votare e chi non lo fa, la politica finisce per dedicarsi a una minoranza, tutta italiana, perdendo ogni giorno terreno. Mentre la realtà va da tutta un’altra parte.
Lo hanno capito, invece, in uno dei luoghi più iconici della città. Al circolo Arci dell’antico quartiere operaio di Narnali, il circolo di Francesco Nuti, al bancone color anni Ottanta si serve la spuma, non può mancare il Manifesto (ma ci sono anche il Tirreno e la Nazione), ai tavoli ci trovi sempre accaniti lettori di giornali di carta pronti a discutere di tutto, come accade ininterrottamente dal 1951, quando dal dirimpettaio circolo bianco della Misericordia un gruppo si staccò per costruire da zero questi locali. Ma da qualche anno, a fianco della mitologica sala da biliardo dove s’ambientò “Io, Chiara e lo scuro”, lo spazio dedicato al gioco delle carte è stato riconvertito. In doposcuola, per elementari e medie. Il novantacinque per cento dei bambini è cinese. «Sono una quarantina a turno, tutti tesserati Arci. Le carte non tiravano più, questi ragazzi ci ravvivano anche il bar», racconta Mauro, colonna portante del Circolo, mentre fa il giro tra i tavoli tondi in formica verde, che una volta ospitavano il tressette e adesso fogli plastificati inzeppati di ideogrammi

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