Attualità
17 dicembre, 2025Pubblicati i dati Ercas dell’Index of public integrity (Ipi) che verifica la capacità dei Paesi di arginare il malaffare. Si scopre così che sulla trasparenza e l’accessibilità dei dati scontiamo un deficit enorme. A cominciare dal catasto
Sono stati aggiornati al 2025 i dati dell’Index of Public Integrity (IPI), indicatore internazionale che misura la capacità di oltre 120 Paesi di arginare la corruzione attraverso il funzionamento delle loro istituzioni. L’aggiornamento è stato presentato a Roma dai ricercatori dell’European Research Centre for Anti-Corruption and State-Building (ERCAS), che cura l’indice.
La misurazione scientifica della corruzione è tradizionalmente controversa, perché si confronta con una pratica progettata per sottrarsi all’osservazione diretta, quindi difficilmente quantificabile da strumenti convenzionali. Affidare queste misurazioni a pareri di esperti o di cittadini, che riescono ad accedere più informalmente alle pratiche, anche illecite, comuni nel paese sotto osservazione, è la via più comune per aggirare questo scoglio.
L’IPI si distingue da altri strumenti proprio perché non percorre questa via, non valutando la percezione di corruzione, ma concentrandosi su dati comparabili. L’obiettivo diventa verificare se il Paese osservato dispone delle condizioni minime perché l’azione pubblica sia trasparente: accessibilità delle informazioni amministrative, funzionamento dei sistemi di controllo, libertà dei media, capacità digitale dello Stato e dei cittadini. Così, l’indice consente di individuare con maggiore precisione dove il sistema si inceppa e come migliorarlo attraverso interventi mirati.
Nel caso italiano, i dati continuano a mostrare un divario tra il livello di regolazione e la disponibilità effettiva delle informazioni pubbliche. "L’Italia ha molte regole, ma pubblica meno della metà dei dati che dovrebbe rendere accessibili", osserva Alina Mungiu-Pippidi, politologa, direttrice di ERCAS e tra le principali studiose di governance e anticorruzione. "La trasparenza formale non coincide con quella reale: molte informazioni non sono online, non sono aggiornate, o non sono liberamente consultabili".
Secondo Mungiu-Pippidi, il problema non è tanto l’assenza di norme quanto l’uso della regolamentazione come sostituto della trasparenza. "Esiste un antico detto romano secondo cui la repubblica più corrotta è quella con più leggi. È una suggestione che ritorna quando le regole esistono, ma le decisioni pubbliche non sono consultabili integralmente".
Così l’Italia fatica ancora a tenersi al passo con esempi più virtuosi. Un confronto istruttivo è offerto dal catasto estone, basato su tecnologia blockchain, che garantisce tracciabilità e trasparenza. In Italia, al contrario, le informazioni catastali spesso non sono disponibili online, non sempre sono aggiornate, né consentono di ricostruire con facilità la storia delle transazioni immobiliari o i confini delle proprietà.
Analogamente, la città di Parigi rende pubblici online tutti i permessi di costruzione, inclusi quelli respinti, in modo da limitare l’opacità amministrativa e ridurre il rischio di sospetti sulle decisioni assunte, ma altrettanto non si può dire della capitale italiana.
E siamo indietro anche rispetto alla trasparenza dei finanziamenti e delle spese dei partiti: "In materia, l’Italia è sotto la media europea, tra gli ultimi dieci posti nel ranking - aggiunge Mungiu-Pippidi -. E questa discrepanza tra regole formali e trasparenza de facto rende quasi impossibile l’esercizio di un controllo informato da parte dei media e dei cittadini".
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