Sono passati dieci anni da quando l’operazione Mare Nostrum si è conclusa, un tempo in cui il soccorso in mare era un atto di umanità condivisa, una danza di solidarietà e collaborazione tra istituzioni e Ong. Oggi le navi di soccorso sono diventate taxi in un mare di sofferenza, e chi lavora a bordo è visto, nella narrazione distorta, come un trafficante di esseri umani. Dalla fine di Mare Nostrum la scelta per le Ong è diventata una lotta: rimanere e resistere a costo di tutto, o mollare la presa davanti a degli ostacoli sempre più complicati da arginare. Sos Mediterranée non ha mollato, la sua Ocean Viking solca ancora le onde, e a bordo ci sono persone come Filippo.
Filippo, l’infermiere con l’accenno spagnolo e le radici siciliane, è uno di quei volti che si è deciso a salvare vite. Con la sua esperienza, in quattro anni, ha portato in salvo tra le quattro e le settemila persone. Non ricorda sempre i nomi, ma i volti e le storie restano incisi nella sua anima. Per lui, il contatto dopo il salvataggio è un peso troppo grande, un’ulteriore prova da sopportare. Il distacco è una strategia di sopravvivenza: mantenere la mente lucida, i nervi saldi, non lasciarsi trasportare dalle emozioni per essere sempre pronto ad una nuova missione.

Durante le traversate le luci delle piattaforme petrolifere seducono i migranti in cerca di terraferma, e così la Ocean Viking decide proprio di pattugliare quelle zone in cerca di persone in difficoltà, la nave rossa si muove come un predatore nelle acque del Mediterraneo, come avesse un istinto naturale ad intercettare chi è in pericolo. Ogni giorno in più in mare è una scommessa sulla vita.

La politica, intanto, gioca le sue carte avverse: “Con il decreto Piantedosi non possiamo più restare a lungo nelle aree Sar, dopo ogni salvataggio riceviamo immediatamente un porto sicuro e dobbiamo lasciare la zona che stiamo controllando. Potrebbe sembrare una buona notizia, ma non lo è, perché spesso portiamo in Italia imbarcazioni semi vuote, sappiamo che ci sarebbe ancora bisogno di restare per effettuare altri soccorsi ma non possiamo farlo ed è terribile sapere che stiamo lasciando qualcuno indietro.” Racconta Filippo.

Lo stesso vale per le distanze, le imbarcazioni dei migranti cominciano ad avere problemi attorno alle 70 miglia di distanza dalla costa (circa 100km), l’esperienza in mare consente di rimanere il più possibile in questa area del Mediterraneo, ma tra fermi amministrativi e ricorsi sono tanti i giorni in cui la nave è costretta a rimanere in porto. "Uno degli aspetti più incredibile di ogni salvataggio è constatare che i migranti non hanno non alcuna dimestichezza con il mare, una volta un ragazzino di 16 anni ha avuto una crisi di panico, l’ho dovuto trascinare e quando siamo arrivato a bordo gli ho chiesto cosa gli fosse successo e mi ha confessato che era la prima volta che si trovava in acqua, era terrorizzato.” Prosegue Filippo.

La notte fa perdere l’orientamento. L’inesperienza, l’incapacità di domare le onde si traduce in viaggi che spesso non conducono i migranti da nessuna parte, sono un continuo zigzagare senza meta, dove ogni minuto in più mette a rischio la vita. Poi ci sono le multe che piovono come piombo, trasformando l’atto di salvezza in un’equazione economica assurda (oltre 70 mila euro in due anni).

“Non sopporto che il mio mare sia diventato un cimitero, il mio lavoro è un atto di resistenza, un gesto politico.” Filippo è un fiume in piena. I suoi occhi incrociano quelli di ragazzi ustionati, di donne sopravvissute a soprusi disumani. Quando sbarca, la sua anima è una bilancia in equilibrio precario, pendente sull’attesa di tornare in mare. Fuori c’è la sua vita, la sua famiglia, ma dentro la nave rimane un filo impossibile da recidere. Verso l’estremità della nave ci sono container bianchi dove depositare gli oggetti che possono servire durante i giorni di navigazione, all’estremità, quello che affaccia più verso il mare serve per trasportare i cadaveri di chi non ce l’ha fatta.

Sonia, volontaria di terra, porta la sua parte di fardello. Osserva il container bianco custode di storie di vita perdute. Seppur lontana dalle onde, il suo lavoro è un atto di testimonianza. Racconta ai giovani l’importanza di salvare vite umane, spezzando la narrazione della rassegnazione e della paura. Nelle scuole, nei banchetti in mezzo alla strada, ovunque possa fare la differenza. “Io lavoro con i minori stranieri non accompagnati. È strano essere a bordo, perché io di solito vedo cosa succede dopo a queste persone, quando sono già in salvo e conservano solo le ferite dell’anima, per quelle spesso non c’è cura.” Si commuove quando mi racconta di quel ragazzino che sul barchino ha visto annegare la sorella davanti ai suoi occhi.

“Io credo che la maggior parte della società civile sia da questa parte della storia, faccio la volontaria perché non mi va di sentirmi inerme davanti a quello che succede.” Filippo si prepara per la ripartenza, lo staff medico a bordo è un punto di riferimento fondamentale per i migranti, diventano guide spirituali, psicologiche, la famiglia che non hanno più.

Cosa non dimenticherai mai, Filippo? Ahmed, quel bambino nigeriano di 4 anni, quando ci lasciarono per giorni infiniti in attesa di un porto dove sbarcare. Lo guardavo giocare spensierato e pensavo: “Come glielo spiego che qui non è il benvenuto?".