Il telefono è staccato. Muto. Fino a due giorni fa squillava, anche se non sempre qualcuno rispondeva, ma non era quello l’importante. «Mamma, se c’è linea, io sto bene», le aveva detto Amani. E così Fatuma, dalla sua casa di Omdurman a 6 chilometri dalla capitale sudanese, ha trillato ogni mezz’ora: quando dall’altro lato del telefono la linea agganciava e c’era un tuuuuu, tuuuuu, chiudeva, anche senza dire ciao. Era una consolazione, sia per Fatuma sia per Amani, che si sentiva in qualche modo tenuta d’occhio a distanza e anche quasi consolata. Come se il solo pensiero della madre potesse tenerla in vita. Ma non è bastato più. «Ti prego, ti prego… Cercala, magari qualcuno l’ha presa a bordo». L’appello giunge disperato a molti chilometri di distanza dal luogo del presunto naufragio o salvataggio e reperire informazioni è difficilissimo, soprattutto nelle prime ore. Bisognerà aspettare per capire se Amani, partita dalle coste tunisine a bordo di una lamiera di ferro piegata come un foglio a formare una barchetta, è morta annegata oppure no. Ma il sospetto è questo, che il suo telefono non suoni più, perché è in fondo al Mediterraneo.
L’ultimo naufragio è avvenuto tra il 27 e il 29 aprile, quando almeno due imbarcazioni sono affondate al largo della Tunisia. In una, partita da Sfax, ci sarebbero state a bordo 7 persone, 5 sarebbero morte. Nell’altra ci sarebbero stati 37 tra uomini e donne, di questi 8 sono affogati mentre gli altri sono stati salvati dalla guardia costiera tunisina e riportati indietro. A bordo erano tutti migranti dell’Africa subsahariana che vivono nascosti nella zona degli uliveti lungo la costa tra Sfax e Zarzis in attesa di partire per salvarsi la vita. Amani è arrivata tre mesi fa dal Sudan da dove è scappata a causa della guerra. Non avendo più nulla, ha deciso di fuggire via e, in un viaggio infernale, è poi è arrivata in Tunisia. A raccontarlo è proprio sua madre, in contatto con una rete solidale che si occupa di cercare i migranti dispersi tra il deserto e il mare.
«Il viaggio da Khartum è stato molto costoso – spiega Fatuma – ho barattato tutto quello che avevo per farla andare via. Io sono malata, il mio destino è segnato, ma lei avrebbe meritato un futuro». Partita con altri connazionali a bordo di un autobus, Amani e il suo gruppo sono arrivati in Niger, dove a un checkpoint li hanno fermati. I militari hanno diviso gli uomini dalle donne e li hanno trascinati via, per interrogarli sulla destinazione, ma soprattutto per ricattarli. Per lasciarli andare, infatti, hanno chiesto loro 1.200 franchi africani che, ovviamente, nessuno di loro aveva. E allora, per riscattare il pagamento, due donne sono state costrette a prostituirsi con alcuni soldati.
In Ciad le cose non sono andate tanto diversamente. E solo dopo esser stata rapinata, molestata e umiliata, Amani è riuscita a proseguire il viaggio. Dei suoi compagni di viaggio iniziali, ne sono rimasti solo due. Arrivati in Libia la carovana ha risalito il Paese lungo il confine algerino fino ad arrivare in Tunisia. E lì, nascosta in uno degli accampamenti negli uliveti, Amani è rimasta con un altro centinaio di migranti subsahariani ad aspettare una via di fuga. «Voleva partire, aveva trovato il modo. Dov’è finita mia figlia?».

La stessa domanda se la pongono le migliaia di famiglie che sono alla ricerca di parenti e amici scomparsi. Nessuno sa se quelle persone siano morte e dove o se, magari, siano vive ma rinchiuse da qualche parte.
Le segnalazioni arrivano quotidianamente ai gruppi che, in rete tra loro, provano a tenere non solo un conteggio, ma anche una sorta di censimento di chi, fortunatamente, riappare. «Ci arrivano molte richieste ogni giorno» ci racconta un lavoratore di una di queste associazioni che ricercano i migranti scomparsi. Per motivi di sicurezza chiede di rimanere anonimo. «Ci contattano dall’Africa, ma anche dall’Italia e dal resto d’Europa, perché magari c’è qualcuno che è arrivato e qualcun altro no. Ci sono famiglie che in Tunisia sono state divise e il destino di qualcuno di loro è ancora ignoto. È un lavoro difficile, a metà tra l’investigazione e la diplomazia – racconta la fonte – che, purtroppo, raramente ha un esito positivo».
Perché c’è l’ignoto del mare. Il Mediterraneo centrale, infatti, si conferma la rotta migratoria più letale al mondo. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), come si legge nel nuovo report interattivo “Missing Migrants and Countries in Crisis”, dal 2014 a oggi sono morte o scomparse oltre 28mila persone. Solo nel 2023, oltre 2.500 persone sono morte nel tentativo di attraversare il mare, un dato che sottolinea come la situazione stia peggiorando anno dopo anno. E poi c’è l’ignoto del deserto. Da mesi, ormai, la Tunisia rastrella gli uliveti e deporta i migranti al confine con la Libia o con l’Algeria abbandonando le persone nel mezzo del nulla, senza cibo e acqua. Altri, invece, vengono portati al confine e venduti ai gestori delle prigioni, come quella di Al Assah, sotto la tutela della Lbg (Libyan border guard) e del Dcim (Department of combating illegal migration), dipendenti entrambi dal ministero dell’Interno di Tripoli. «Situata a circa 11 km dalla frontiera, la prigione è anche il punto più vicino all’ultima stazione di detenzione in Tunisia: il grillage o la cage, secondo il linguaggio dei testimoni», spiegano i ricercatori autori del rapporto State trafficking. Lì o in altri luoghi di segregazione potrebbero trovarsi centinaia di persone che, a oggi, risultano scomparse. Le altre, potrebbero trovarsi in una delle fosse comuni che di tanto in tanto vengono ritrovate tra la Tunisia e la Libia o sepolti nella sabbia. «Grazie alla rete di contatti sul posto – ci spiega una cyber attivista che gestisce una delle pagine social per rintracciare i migranti scomparsi – cerchiamo di mettere insieme le notizie come un puzzle e di segnalare quante più situazioni possibile. A volte sapere che una persona cara è morta è molto meglio che saperla dispersa, ecco perché cerchiamo di dare risposte. È una questione di dignità umana».
Intanto, sono passati i giorni e di Amani non c’è nessuna notizia. Il suo telefono è ancora muto mentre altri uomini e donne, costrette a fuggire, tentano la sorte, tra le onde e le dune. Sperando, domani, ti poter rispondere. «Ce l’ho fatta».