Negli ultimi anni sono raddoppiati i centri di recupero per i maschi che hanno maltrattato le compagne. Ma molti frequentano i percorsi rieducativi solo per avere pene più blande

Il violento può cambiare. Se lo vuole

Se gli uomini fossero abituati a parlare di come stanno, probabilmente non sarebbe così strano scegliere un percorso di condivisione, come quello all’interno di un gruppo di autocoscienza: non c’è abitudine a parlare di sé e delle proprie emozioni» dice Maurizio Pisani, tra i coordinatori del Cerchio degli uomini, un’associazione nata a Torino alla fine degli anni ‘90 come gruppo di uomini che si interrogano su cosa significa essere maschi e sul ruolo della cultura patriarcale nelle loro vite. «Molti si avvicinano a questa realtà per confrontarsi sui propri dubbi nelle relazioni con le donne e con gli altri uomini, alcuni perché affrontano crisi sul lavoro o nel matrimonio e decidono di mettersi in discussione – spiega Maurizio, che frequenta il gruppo da diversi anni – Per me farne parte ha rappresentato un percorso evolutivo. Ho trovato uno spazio di ascolto dove non si viene giudicati».

 

Dal 2009 l’associazione ha aperto anche un centro di ascolto per il disagio maschile e la prevenzione della violenza contro le donne, diventando uno dei 94 centri censiti sul territorio nazionale a offrire un percorso rieducativo rivolto agli uomini autori di violenza, i cosiddetti Cuav. In base all’indagine svolta dal Consiglio nazionale delle ricerche, quasi la totalità di coloro che accedono a questi centri sono uomini inviati dai propri avvocati o dalle autorità giudiziarie dopo aver ricevuto denunce o sentenze, inferiori ai due anni di pena, per reati legati alla violenza di genere. A incontrarli sono équipe multidisciplinari formate da psicologi, educatori e avvocati, prevalentemente donne.

 

Per Eleonora Spinarolli, operatrice da due anni presso il Cuav del Cerchio degli uomini ed ex operatrice in un centro antiviolenza, lavorare con gli uomini maltrattanti è fondamentale per affrontare il problema della violenza di genere: «Molto spesso per queste persone il Cuav è il primo spazio di condivisione che hanno a disposizione per parlare di sé. Questo passaggio è centrale per cambiare la loro mentalità e aiutarli a prendere consapevolezza che ciò che hanno fatto è sbagliato».

 

Quando nel 2013 il Parlamento ha aderito alla Convenzione di Istanbul, il principale trattato europeo dedicato alla prevenzione e alla lotta contro la violenza sulle donne, i Cuav sono stati riconosciuti anche in Italia come strumento di contrasto alla violenza di genere. Attraverso questi centri la Convenzione si pone l’obiettivo di responsabilizzare gli uomini maltrattanti sulle loro condotte, promuovere un cambiamento nei loro modelli di comportamento e prevenire la recidiva. Per operatori e operatrici costruire un percorso mirato ad attuare questo tipo di processi può rivelarsi complicato. Nella maggior parte dei casi gli utenti sono uomini che hanno perseguitato o maltratto le compagne, le ex e le proprie madri. Ma anche a fronte di una sentenza, l’approccio comune è quello di negare le proprie azioni. «In molti casi chi abbiamo davanti parte dal presupposto che la donna vale zero. La tendenza è quella di colpevolizzare lei, la società o il tribunale – dice Spinarolli – Per valutare se da parte degli autori di violenza c’è la volontà di ragionare su quello che hanno fatto, prima di intraprendere un percorso di recupero facciamo con loro dei colloqui di valutazione».

 

Il processo di selezione avviene nella maggior parte dei Cuav italiani, ma non in tutti. Dove questo avviene, il rifiuto della presa in carico dipende soprattutto dalle caratteristiche degli autori di reato, che possono essere valutati come inadatti ad affrontare un percorso di cambiamento. In altri casi, i crimini che hanno commesso non sono ritenuti compatibili con il tipo di intervento realizzato dal centro.  

Comparsi in ritardo rispetto ad altri Paesi europei, in Italia i Cuav sono quasi raddoppiati tra il 2017 e il 2022, anno a cui risalgono gli ultimi dati disponibili raccolti dal Consiglio nazionale delle ricerche, quando gli uomini autori di violenza presi in carico dai vari centri erano poco più di quattromila. Tra loro, 70 erano minorenni. «Attualmente non esiste una banca dati condivisa, anche se i territori si stanno organizzando per sviluppare degli osservatori regionali» spiega Emanuela Skulina, referente della rete nazionale Relive - Relazioni libere dalla violenza, che raduna circa la metà dei centri per uomini autori di violenza esistenti in Italia: «Ogni centro aderente, al netto delle differenze che possono esistere tra le varie realtà, organizza e svolge autonomamente i percorsi per uomini seguendo le linee guida condivise e i criteri minimi stabiliti dall’intesa Stato-Regioni».

 

Il percorso rieducativo dura in genere da sei mesi a un anno, è suddiviso in incontri settimanali e, dal 2019, la legge nota come “Codice rosso” prevede che a coloro che vi partecipano possa essere riconosciuta la sospensione condizionale della pena. Dall’introduzione di questa misura, l’accesso ai centri è aumentato progressivamente e al contempo la diminuzione degli accessi spontanei ai servizi è stata drastica, passando dal 40 per cento nel 2017 al 10 per cento nel 2022. Le testimonianze raccolte attraverso uno studio qualitativo pubblicato nel 2021 mostrano inoltre un incremento degli accessi strumentali, ovvero di uomini più interessati all’ottenimento di pene meno afflittive o alla sospensione della pena che a un reale percorso di cambiamento. «C’è chi viene per questi motivi, ma l’aumento della partecipazione a questi percorsi è un bene perché, in assenza di spazi di rieducazione come questo nei casi che lo permettono, l’alternativa è il carcere fine a se stesso» sostiene Jacopo Piampiani, cofondatore dell’associazione Lui di Livorno, uno dei Cuav più grandi d’Italia per numero di accessi.

 

Secondo il Consiglio nazionale delle ricerche, l’aumento degli accessi per motivi di convenienza «può anche tradursi in un maggior rischio di interruzione del percorso». È quello che è successo nel 2022 al 46 per cento degli utenti in Italia, che hanno smesso di frequentare gli incontri prima del dovuto, senza che la decisione fosse condivisa con l’équipe. «Molto spesso gli autori di violenza non si rendono conto di aver fatto qualcosa e non pensano di dover affrontare le loro responsabilità. Essendo molti uomini cresciuti in un contesto culturale di legittimazione della prevaricazione e della violenza a discapito della donna, tanti non si rendono conto di avere delle difficoltà – dice Piampiani – Per questo gran parte del lavoro consiste nel renderli consapevoli del disvalore del loro gesto violento».

 

In base alle linee guida condivise dalla rete Relive, per interrompere la violenza è anche imprescindibile collaborare con i servizi territoriali dedicati alle donne e ai minori maltrattati, affinché siano il più possibile tutelati. Elisa Aiello, operatrice del Cuav “Il primo passo” di Catania, spiega che questa procedura consiste nel mettere la donna al corrente del percorso intrapreso dal partner maltrattante. «Ci mettiamo in contatto con lei solo se è disponibile, tramite il suo avvocato. Lo facciamo per darle supporto indirizzandola a un centro antiviolenza e a scopo di monitoraggio: un passaggio cruciale soprattutto se il partner le si riavvicina e se ci sono figli coinvolti che potrebbero subirne le conseguenze».

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