La procura milanese si prepara a mandare a processo i capibastone di camorra, Cosa nostra e 'ndrangheta. Si ipotizza un "sistema mafioso lombardo la cui operatività veniva decida congiuntamente dalle tre componenti"

A Milano la mafia è "una e trina": la maxinchiesta Hydra può diventare un nuovo maxiprocesso alla criminalità al Nord

Pur con le dovute proporzioni, Matteo Messina Denaro e Paolo Aurelio Errante Parrino sono legati anche dalle modalità dei loro arresti. Il primo, l’ex «primula rossa» di Cosa nostra, catturato il 16 gennaio 2023 nella clinica Maddalena di Palermo dopo 30 anni di latitanza; il secondo fermato a fine gennaio davanti all’ospedale di Magenta dopo essere stato irreperibile per tre giorni. Ma al di là delle immagini evocative, per gli inquirenti Parrino era il referente della mafia trapanese in Lombardia, il punto di «raccordo – come ha scritto qualche giorno fa la Cassazione – tra il sistema mafioso lombardo e Matteo Messina Denaro». Con Messina Denaro non condivideva solo la provenienza – entrambi di Castelvetrano, anche se lo «zio Paolo» è dai primi anni Novanta in pianta stabile ad Abbiategrasso, nell’hinterland milanese – ma anche una parentela: sua moglie, Antonina Bosco, è cugina di Gaspare Como, marito di Bice Messina Denaro, sorella del boss di Cosa nostra.


 

Parrino è solo la punta dell’iceberg dell’inchiesta Hydra sulla cosiddetta «mafia a tre teste» condotta dalla procura di Milano, che il 20 maggio entra nel vivo con l’avvio delle udienze preliminari che potrebbero aprire le porte al primo maxiprocesso in Lombardia dopo l’operazione «Crimine-Infinito», quando nel 2010 la regione più produttiva e più ricca d’Italia ha scoperto all’improvviso di non essere immune alla presenza delle cosche. Nel frattempo, è diventato un dato assodato che la Lombardia sia una regione ad alta presenza mafiosa (secondo l’ultima relazione semestrale della Dia ci sono 24 locali di ‘ndrangheta attivi) dove la criminalità organizzata si fa anche impresa e dove anche nell’imprenditoria c’è a volte domanda di servizi criminali. Qui, come altrove, «lo stereotipo schema vittima-oppressore – come si legge nelle motivazioni della sentenza “Cavalli di razza” sula criminalità calabrese nel comasco – viene ad assumere contorni sfumati».


 

Il numero degli indagati che potrebbero finire alla sbarra è impressionante: 143 imputati, tra cui 48 accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, sfileranno di fronte al gip Emanuele Mancini, che verrà esentato da ogni altra attività per potersi concentrare su questo processo e che ha già predisposto un fittissimo calendario di oltre 20 udienze fino a fine luglio. Per l’occasione, considerata la dimensione e la delicatezza dell’inchiesta – i pm ipotizzano un «consorzio» di mafie: un’alleanza lombarda tra camorra, Cosa nostra e ‘ndrangheta che aveva le proprie basi nel milanese e nel varesotto – le udienze non si terranno come sempre al settimo piano del Palazzo di giustizia di Milano ma nell’aula bunker accanto al carcere di Opera, anche a causa dell’indisponibilità di quella di San Vittore, occupata per il processo sugli ultras di Inter e Milan. Dove, anche qui, a far da padrona è la criminalità organizzata (in particolare quella di origine calabrese) con le sue mire sugli affari che ruotavano attorno a San Siro. Al primo appuntamento si prevede la presenza di oltre 300 persone tra avvocati, personale giudiziario, forze di polizia e magistrati. E anche rappresentanti della Regione Lombardia, oltre che dei Comuni di Milano e Varese, parti offese nel processo.


 

Per quest’inchiesta si è scatenato uno scontro senza precedenti all’interno del tribunale di Milano. Dopo oltre tre anni di indagini, a fine 2023 la procuratrice Alessandra Cerreti, ora affiancata anche da Rosario Ferracane nel sostenere l’accusa al maxiprocesso, in 5.028 pagine di ordinanza aveva chiesto 120 misure cautelari. Richiesta bocciata quasi totalmente dal gip Tommaso Perna che, nel concederle solo per 11 indagati, aveva di fatto smontato il «teorema» e l’impostazione della procura guidata da Marcello Viola. Da lì era partito un ricorso di oltre mille pagine al tribunale del Riesame, in cui Cerreti difendeva l’esistenza di una «struttura confederativa orizzontale», non estemporanea ma sistemica. Cerreti era stata netta, dal momento che, a suo avviso, il gip «aveva ignorato e smentito le più eterogenee evidenze investigative e processuali dell'ultimo ventennio»). Poi il tribunale del Riesame aveva accolto il ricorso, fino ad arrivare agli scorsi mesi con la Cassazione che, a sua volta, ha dato ragione alla procura e ha autorizzato l’applicazione delle misure cautelari per i principali imputati, di cui 27 in carcere: non solo Parrino, ma anche i fratelli Rosario e Giovanni Abilone, Giuseppe Fidanzati, Vincenzo Rispoli, Vincenzo Senese, Giancarlo Vestiti. Per le «credibili» minacce ricevute in questi mesi, per Cerreti e per il procuratore capo Viola sono state rafforzate le misure di sicurezza.


 

Prima dei singoli reati, degli affari, dei 21 summit che compaiono negli atti dell’inchiesta, salta all’occhio il rincorrersi dei cognomi dei coinvolti che da decenni ricompaiono ciclicamente nelle inchieste più importanti di mafia. Per questo, più che di infiltrazione è più appropriato parlare di persistenza. C’è la famiglia palermitana dei Fidanzati, gli eredi della delocalizzazione al Nord di Cosa nostra a Milano decisa da Luciano Liggio che non a caso lì si stabilì e lì venne arrestato, il 16 maggio del 1974, in via Ripamonti. Il padre di Giuseppe Fidanzati, Gaetano, venne condannato durante il maxiprocesso di Palermo. Ci sono i trapanesi –  oltre a Parrino, i Pace e gli Abilone – e i catanesi della famiglia Mazzei, oltre ai Rinzivillo, la cui presenza in Lombardia è attestata già da alcune sentenze del lontano 1986. Ci sono gli ‘ndranghetisti della locale di Legnano-Lonate Pozzolo, collegata a Cirò e guidata da Vincenzo Rispoli. C’è Antonio Romeo dell’omonima ‘ndrina di San Luca, trapiantata dagli anni Novanta anche in Lombardia, e Domenico Tripodi, ritenuto dalla Dia vicino alla locale di Desio. C’è poi il clan camorrista dei Senese, che da anni spadroneggia a Roma.


 

La procura ipotizza l’esistenza un network criminale che «catalizza e gestisce risorse finanziarie, relazionali ed operative di compagini di camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra, attraverso uno stabile vincolo associativo». Un’associazione mafiosa che avrebbe «trasferito nel sodalizio orizzontale tutti i tratti genetici delle associazioni» di provenienza, un «sistema mafioso lombardo la cui operatività veniva decisa congiuntamente dalle tre componenti mafiose». Con una finalità: stare in pace per fare affari e spartirsi i proventi («Senza spari, hai visto com’è cambiato tutto?», dice intercettato Giancarlo Vestiti dei Senese al siciliano Gioacchino Amico, vicino anche lui a Messina Denaro). In comune, le tre organizzazioni avrebbero avuto anche una cassa, la «bacinella», nella quale venivano versate «somme di denaro (…) destinate al sostentamento dei detenuti e/o alle esigenze degli associati». 


 

All’ombra di molti affari lombardi c’era spesso Matteo Messina Denaro. Ed era Parrino a fargli avere «comunicazioni relative ad argomenti esiziali per l’associazione mafiosa». «Circostanza estremamente significativa», si legge nelle carte, sono due incontri, del 20 febbraio e del 2 maggio 2021, a Campobello di Mazzara «presso il bar San Vito ubicato a meno di 100 metri da quello che, successivamente, verrà individuato come il covo» del boss di Cosa nostra.





 

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