Quando nel 1922 morì Benedetto XV, il conclave si aprì nonostante mancassero i cardinali nordamericani. Saputo del decesso, i porporati di Boston, Filadelfia e Quebec in Canada, valigie in mano, presero la prima nave e attraversarono l’Atlantico con la speranza di arrivare in tempo a Roma e partecipare al voto. Il viaggio, però, durò più dei dieci giorni stabiliti tra la morte del pontefice e l’inizio del conclave. Quando arrivarono, Achille Ratti era già diventato Pio XI e stava impartendo la benedizione Urbi et Orbi. In seguito alle loro lamentele, il pontefice decise di estendere il periodo a 15 giorni per poter permettere anche ai prelati che vivevano nelle regioni più lontane, come gli Stati Uniti, di partecipare.
Oggi, a poco più di cento anni, con Robert Francis Prevost, «abbiamo un Papa tutto nostro, a cui ci sentiamo legati in modo speciale», dice a L’Espresso Kathleen Sprows Cummings, docente di storia all’Università di Notre Dame, autrice del saggio “A Saint of Our Own” – profetico – sulla complessa ricerca dei cattolici statunitensi di un santo nazionale in cui riconoscersi. «Per molto tempo essere americani e cattolici era quasi incompatibile; i protestanti credevano che non potessimo essere bravi cittadini perché fedeli alla Santa Sede, mentre in Vaticano ritenevano che gli Stati Uniti fossero troppo lontani, non solo geograficamente, anche culturalmente».
E invece ora per la prima volta sul soglio di Pietro siede un americano. «Fino all’otto maggio scorso, il più conosciuto era Donald Trump, un uomo crudele, che antepone la nazione al cristianesimo, interessato solo a sé stesso; adesso, invece, è Leone XIV, un papa che parla dell’amore di Dio per tutti, che difende i migranti, che promuove il dialogo e l’ascolto», dice ancora. «In questa fase in cui molti di noi sentono che la nazione sta attraversando un momento buio, la sua elezione cambia le cose. Forse non ancora praticamente, ma sicuramente nella percezione».
Anche fuori dai confini, perché come scrive l’editorialista Gustavo Arellano sul Los Angeles Times: «Il Vangelo Maga si fonda sulla versione peggiore dell’eccezionalismo americano: isolazionismo, sciovinismo, risentimento, xenofobia e l’idea che ci si debba occupare solo di sé stessi, lasciando indietro tutti gli altri. Invece di trovare la salvezza, gli americani oggi sono più paranoici e divisi che mai. Ma con papa Leone, abbiamo ora un leader che può ricordare a noi, e al mondo, cosa rappresentano davvero gli Stati Uniti, nella loro versione migliore».
Il nuovo pontefice, volente o nolente, dal primo giorno è diventato l’anti-Trump. Ma, come molti analisti sostengono, cercherà il dialogo con la Casa Bianca. «Affronterà la questione non in chiave politica, ma agendo come guida morale» riflette la docente di Notre Dame. «Il presidente ascolterà Leone XIV più di quanto si sentisse in dovere di fare con Francesco, che restava uno straniero. Sono sicura che per lui sia fantastico avere un papa statunitense, uno strumento per consolidare il potere degli Stati Uniti. Ovviamente il pontefice non è interessato a “rendere grande l’America”».
Per James Carroll, ex sacerdote, scrittore e autore di numerosi studi sulla necessità di riformare la Chiesa, «la questione più importante riguarda il suo potere di influenzare la lotta per la democrazia. Deve fungere da contrappeso. Trump disprezza coloro che sono ai margini del potere capitalistico; scegliendo di chiamarsi Leone, il pontefice ha messo in chiaro di volersi schierare dalla parte dei poveri». Pur avendo partecipato in passato soprattutto alle primarie repubblicane in Illinois, Prevost sembra essersi distanziato dal partito con l’ascesa di Trump: non a caso non ha votato alle politiche del 2016 e del 2020, mentre nel 2024 lo ha fatto per corrispondenza. Vicino ai migranti e ai poveri, sensibile al tema climatico, ha criticato sui social sia l’inquilino della Casa Bianca sia il suo vice J.D. Vance. Ora dovrà decidere fin dove spingersi.
Il fatto che Papa e presidente siano nati nello stesso Paese di certo può aprire nuove possibilità. Parlano la stessa lingua e condividono la stessa cultura. “Bob” è nato nel South Side di Chicago (come Michelle Obama). Nel cuore della Windy City, terra di blues e battaglie civili. Pur avendo vissuto per anni in Perù e Italia, non ha mai rinnegato le sue radici: tornava spesso per incontrare i familiari e gli amici, mangiare nei suoi locali preferiti e tifare per i White Sox. Ma soprattutto le sue origini, la sua storia e le sue parole fanno di lui un “costruttore di ponti” più che di “muri”. «Pur essendo statunitense, ha una visione profondamente globale. La sua stessa vita unisce il Sud, il Nord America e l’Europa, attraverso il suo ministero», ricorda Kathleen Sprows Cummings. «Questa elezione ci rammenta che come cattolici facciamo parte di una Chiesa globale».
Un concetto, quello della globalità, che non trova molti fan nei corridoi del sovranismo. Prevost non era il preferito della Casa Bianca. L’endorsement di Trump era andato al “grande amico” newyorkese Timothy Dolan, che neppure compariva tra i papabili. Il settantacinquenne, espressione di un cattolicesimo più conservatore, aveva benedetto sia il primo che il secondo insediamento, nonostante in passato lo avesse criticato sul tema dell’immigrazione. Nonostante la delusione, nei commenti a caldo di Trump e Vance – «è un grande onore» – è prevalso il nazionalismo sentimentale.
Nel suo vasto gregge di 1,4 miliardi di fedeli, Leone XIV dovrà occuparsi anche dei quasi 53 milioni di cattolici americani. Eterogenea e frammentata su temi come giustizia sociale e immigrazione ma spesso pro-life, la comunità ha da sempre difficoltà a incasellarsi nel bipolarismo. Un sondaggio di Pew Research ha rilevato che alle ultime elezioni, il 47 per cento (per due terzi ispanici) ha votato per la democratica Kamala Harris, il 52 per cento (per lo più tra i bianchi) le ha preferito il repubblicano Trump. Se gli unici due presidenti cattolici, JFK e Joe Biden, appartengono al partito democratico, nell’amministrazione più conservatrice della storia lo sono sia il vicepresidente (zelante neoconvertito) che il segretario di Stato Marco Rubio (a cui saranno affidate le relazioni con la Santa Sede). Ma anche cinque dei sei giudici conservatori della Corte Suprema.
Leone XIV dovrà ricucire la frattura tra le anime progressista e conservatrice della Chiesa. La doppia nazionalità statunitense e peruviana potrebbe aiutarlo a dialogare sia con gli americani bianchi sia con gli immigrati, mentre resta aperta la sfida di riportare i fedeli tra le panche dopo il trauma degli abusi. Pochi mesi prima del conclave, Prevost e alcuni colleghi erano stati accusati da un gruppo di vittime di non aver agito tempestivamente in due casi, a Chicago nel 2000 e in Perù nel 2022.
Chi non vuole costruire ponti con Leone, già etichettato come “woke” e “marxista”, sono i cosiddetti cattolici “ortodossi”, ostili anche a Francesco che consideravano globalista e antiamericano. Tra loro Steve Bannon, ex stratega di Trump, che aveva già “profetizzato” la sua elezione. La scelta ideale sarebbe ricaduta sull’ultraconservatore del Wisconsin Raymond Burke, famoso sui social per il lunghissimo strascico della “magna cappa” e noto per voler negare a Biden l’eucarestia per le sue idee su aborto e diritti Lgbt.
Gli antimodernisti temono che Leone allarghi la breccia aperta da Francesco sui diritti civili. In passato Prevost si era espresso contro le “famiglie alternative”, lo “stile di vita omosessuale” e l’ordinazione delle donne diacone: posizioni che hanno deluso i progressisti. Ma James Carroll non lo considera un capitolo chiuso: il pensiero del papa potrebbe evolversi, in particolare sulla questione femminile. «La Chiesa non resterà l’unica grande istituzione mondiale a rifiutare l’uguaglianza per le donne». Il cambiamento, per lui, è alle porte. «Trump rappresenta l’ultimo strepito di un impulso reazionario negli Stati Uniti. E la Chiesa cattolica che riecheggia quello stesso impulso è destinata anch’essa a voltare pagina».