Avere il Papa per amico. Averlo frequentato per anni, scherzato e mangiato con lui, essersi confrontati sulle cose pratiche e sulle cose che riguardano la fede e la sua incidenza nel mondo di oggi. Essersi con nostalgia salutati quando Prevost ha dovuto lasciare il Perù perché era stato chiamato a lavorare in Vaticano, e poi aver gioito quando ha saputo che era lui, proprio lui, il suo amico monsignor Robert, a essere stato scelto per un compito vertiginoso: successore di Pietro, capo dei cattolici, rappresentante in terra di Cristo. Abbiamo raggiunto padre Marcos Ballena Renterìa in Perù, a Chiclayo, la diocesi della quale era vescovo Robert Francis Prevost.
Padre Marcos, dov’era quando Leone XIV si è affacciato sul balcone centrale della Basilica di San Pietro, e il mondo ha scoperto che era lui il nuovo Papa?
«Ero nel Seminario Maggiore. Sono Assistente ecclesiale all’Università e responsabile di un collegio, ma lavoro anche lì, e alle 11 ora locale, le 18 in Italia, incominciava una conferenza. Ma avevamo concordato che, se fosse arrivata la fumata bianca, sarebbe stata sospesa. Così è accaduto. Ci vengono ad avvisare, trafelati, sospendiamo tutto e corriamo nell’auditorium per seguire la diretta da San Pietro. Il cuore batteva con una intensità diversa, io aspettavo con il fiato sospeso».
E quando ha sentito il suo nome e lo ha visto?
«Che emozione! Sembrava la scena di quando si vince il mondiale di calcio. C’è chi ha iniziato a saltare, chi a gridare, a me il cuore sembrava uscire fuori dal petto. Quasi tutti quelli che erano presenti alla conferenza lo avevano conosciuto. Quella gioia ci ha fatto esultare, eravamo tutti felici, molti piangevano. Difficile descrivere quello che abbiamo provato: l’emozione era travolgente. Poi, subito dopo, un altro momento ci ha fatto saltare di gioia, stupore e felicità. Quando papa Leone XIV ha rivolto dal balcone un saluto “alla mia amata diocesi di Chiclayo”. In quel momento così solenne ha pensato a noi, ha parlato a noi. Sono scorse lacrime».
Si aspettava la sua elezione?
«Lo ammetto: sì. Al 90 per cento. Ero convinto che se il Papa fosse stato eletto in una delle prime quattro votazioni, entro il secondo giorno di Conclave, molto probabilmente sarebbe stato un uomo di Curia, e Prevost era tra loro. Era Prefetto del Dicastero per i vescovi, e molti cardinali in questi anni lo avevano conosciuto. Ha capacità di governo perché è stato per due volte superiore degli agostiniani, e conosce il mondo perché è andato a visitarne le comunità nei vari continenti. Sa molte lingue ed era stato missionario, cosa assolutamente necessaria alla Chiesa. Insomma, era un ottimo candidato: so che è lo Spirito Santo a scegliere attraverso i cardinali, ma io e gli altri che erano con me eravamo convinti si sarebbe affacciato lui. Il mondo non conosceva le sue doti, noi sì».
Quali sono state le reazioni, lì nella sua nazione?
«È parso ci fosse un unico sentimento tra tutti i peruviani, tra chi lo aveva conosciuto bene e chi non lo conosceva. Una reazione così forte che anche i media ne sono rimasti stupiti».
Lui è americano, non peruviano.
«Quando è arrivato a Chiclayo, nel novembre del 2014, era nordamericano, ma a dicembre tutti già lo percepivamo come peruviano. È sempre stato considerato come uno di noi. Poi prese anche la cittadinanza peruviana, ma non avevamo bisogno di questo per sentirlo nostro connazionale».
Come vi siete conosciuti?
«Era il 7 novembre 2014. Io ho svolto quasi tutto il mio ministero sacerdotale presso il Seminario Maggiore. Quando monsignor Prevost è stato nominato da papa Francesco Amministratore apostolico della diocesi, io ero economo e formatore del seminario. Lui è venuto per celebrare la Messa, poi si è fermato a parlare a lungo con noi, i sacerdoti e i ragazzi del seminario. Per ben due ore ha parlato di sé, ci ha aperto il suo cuore con semplicità, ci ha raccontato tante cose che gli erano capitate, rispondeva alle domande. E così tra noi due è iniziata una vera, profonda amicizia. Per me quello che il mondo conosce ora come papa Leone XIV è stato un padre, un fratello, un amico. Abbiamo lavorato a lungo insieme, e quando è cambiato il rettore del Seminario maggiore, compito delicatissimo, lui ha voluto me, dimostrandomi grande fiducia. E lui non solo dà fiducia, a me come agli altri sacerdoti, ma ci segue, ci resta accanto, ci assiste. Molte volte ho condiviso con lui il mio cuore, in lunghe conversazioni. Ci incontravamo per le questioni economiche o altro che riguardava il seminario, ma le conversazioni iniziavano sempre col chiederci come stavamo, e raccontarci come andavano le cose. È davvero una grande amicizia, quella che abbiamo».
Lei è stato professore di matematica, papa Leone è laureato in matematica. Mi è stato detto che facevate “gare” di matematica. È vero? Chi vinceva?
«In realtà, più che competizioni di matematica, spesso parlavamo di economia. Affrontavamo argomenti di contabilità, o vedevamo come creare o migliorare progetti. Ci confrontavamo, e lui iniziava a parlare di numeri, a volte minuziosamente, poi si fermava e diceva: “Ma perché sto cercando di spiegare queste cose a te, che sei un matematico?”. E ci mettevamo a ridere».
Padre Marcos, a Prevost piaceva stare con la gente e con i ragazzi?
«Molto. Gli piaceva stare con le persone, gli piaceva stare con i giovani. E loro stavano bene con lui. Veniva sempre all’inaugurazione del nostro campionato di calcio nel seminario, alle nostre feste e alle iniziative di autofinanziamento. In quelle occasioni si mangiava molto: da noi si usa così, e occorre arrivare a stomaco vuoto, altrimenti ci si sazia subito, e chi ha cucinato ci resta male. Chiclayo è considerata la città dell’amicizia. La gente si impegna affinché chi arriva si senta a suo agio. E per questo da noi si cura molto anche il cibo, siamo famosi in Perù. Le rivelo che all’attuale papa Leone XIV piacevano molto due piatti in particolare: il riso con l’anatra e il capretto. Sono fantastici. Se tornerà da noi, li mangerà di nuovo. Con sua, e nostra, grande soddisfazione».
Abbiamo visto foto curiose scattate in Perù dell’attuale papa Leone XIV: lui a cavallo, oppure con gli stivali nel fango.
«La città di Chiclayo è a livello del mare, a dieci minuti dall’Oceano Pacifico. Ma in diocesi abbiamo anche montagne, e luoghi a 3 o 4mila metri. Lì non ci si arriva in auto, e ci sono comunità che hanno bisogno del vescovo. Quindi Monsignor Prevost ci andava a cavallo. E quando a Chiclayo è arrivato El Niño, quel terribile fenomeno atmosferico ha portato piogge torrenziali, i fiumi sono straripati, i ponti crollati e il fango ha invaso tutto. Ecco allora che monsignor Prevost indossava gli stivali e andava nel fango a distribuire cibo oppure a portare medicine, o a trasportare assieme ad altri delle case prefabbricate. È uno che non si tira mai indietro, se ci sono necessità. E non si limita a predicare di mettersi al servizio degli altri: lo fa in prima persona».
Avete continuato a sentirvi, una volta che monsignor Prevost è andato a Roma?
«Siamo un gruppo di sacerdoti che ha una chat su WhatsApp attraverso la quale ci confrontavamo continuamente con il vescovo su tutto. Quando è stato nominato cardinale, Sua Eminenza Prevost ha deciso di rimanere nel gruppo. In questo modo, abbiamo continuato ad avere una comunicazione molto frequente con lui. Adesso che è diventato Papa le comunicazioni cambieranno, ci sono protocolli necessariamente diversi. Io non ho osato telefonargli per non disturbarlo. Gli ho spedito un messaggio sul telefonino per dirgli che lo seguiamo con la preghiera, nel suo nuovo, altissimo compito. Papa Leone XIV mi ha risposto due giorni dopo. Che letizia leggere le sue parole. Come avrei mai potuto un tempo immaginare che sul mio telefonino sarebbe apparso un messaggino, pieno di affetto, speditomi del Pontefice della Chiesa cattolica?»
Che tipo di pontificato crede sarà il suo?
«Lui è autentico. Non è imitazione di nessuno. Ci sarà continuità con papa Francesco ma aggiungerà anche molte cose. Sarà contro le guerre, cercherà di diminuire i conflitti nel mondo ma anche quelli interni alla Chiesa, e punterà sulla “vicinanza”. Desidera che la Chiesa sia vicina a tutti, e che non sia una Chiesa da servire, ma una Chiesa che serve gli altri. Una Chiesa che difende la dignità della persona umana, specialmente nei problemi sociali: una Chiesa vicina. E vuole una Chiesa santa, in cui tutto ruoti attorno a Cristo, il suo vero, unico tesoro, e che faccia riscoprire a tutti il Dio che è concretamente vivo oggi come 2000 anni fa, vivo e vicino, in ogni istante, a ogni uomo, donna o bambino della terra. Non sarà né conservatore né progressista, queste categorie mal si adattano alla Chiesa: semplicemente metterà Cristo al centro di ogni suo insegnamento e di ogni sua valutazione, anche politica».