Tra guerre, regimi e mafie, nel mondo gli operatori dell’informazione sono sempre più a rischio. Mentre le testate subiscono pressioni economiche, la libertà di stampa viene soffocata dal potere. Parla il presidente dell’Ordine italiano

Il giornalista è diventato un bersaglio - Colloquio con Carlo Bartoli

«Chi colpisce un giornalista teme la verità». Lo si è detto per celebrare la memoria del fotoreporter Andy Rocchelli. Il 24 maggio 2014, lui era in Ucraina per immortalare le sofferenze dei civili intrappolati negli scontri tra separatisti filorussi e truppe regolari di Kiev: sono state proprio queste a sparargli, con l’obiettivo di eliminare un testimone scomodo. A ricordarlo è Carlo Bartoli, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. «La libertà di stampa è in pericolo a livello planetario – spiega – lo è sempre stata nelle dittature, ora lo è pure nelle democrazie. Penso agli Usa di Donald Trump, alla Russia di Vladimir Putin, all’Ungheria di Viktor Orbán, alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. E penso al caso emblematico di Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, colpevole di avere divulgato documenti che attestano crimini di guerra e che mai sono stati smentiti».

Da un decennio, l’Indice mondiale della libertà di stampa stilato da Reporters sans frontières evidenzia un declino. Ma nel 2025, per la prima volta, nei 180 Paesi che vengono valutati si registra in media una «situazione difficile». Nel mirino, in primis, c’è l’incolumità degli operatori dei media. Tra mafie, gruppi estremisti, regimi autoritari e conflitti, i numeri di cronisti uccisi, feriti, sequestrati, arrestati arbitrariamente o spariti sono inquietanti. Per Amnesty International, i morti nel 2024 sarebbero stati 124. Per Rsf, erano 54 e sarebbero già 17 quest’anno. Perché ogni organizzazione segue criteri diversi nel conteggio, distinguendo tra quanti sono caduti in servizio, in agguati, sotto le bombe o nel fuoco incrociato. Tutti, comunque, si trovavano in luoghi a rischio per fare il loro mestiere.

 

«Negli ultimi mesi, la maggior parte delle vittime è stata causata dagli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza. Si tratta di almeno 220 omicidi, azioni mirate contro chi racconta ciò che lì accade», denuncia Bartoli. I giornalisti stranieri non possono entrare; i locali vivono l’assedio come il resto della popolazione, subiscono il controllo interno e hanno strumentazioni inadeguate. Sul genocidio è così calato un embargo delle notizie. «Abbiamo lanciato un appello al governo italiano affinché chieda la fine del blackout mediatico. Garantire informazione imparziale aiuta a fermare massacri che, nel silenzio e nell’oscurità, proseguono indisturbati». Le violazioni del diritto internazionale, quindi, si diffondono a macchia d’olio: «Indossare giubbotti o elmetti con la scritta “Press” ormai non protegge più. Anzi, trasforma in bersagli. Gli eserciti compiono aberrazioni e non tollerano di essere osservati. Mentre incombe la ragione di Stato che schiaccia chiunque la ostacoli e offre impunità agli autori di tali crimini».

 

In seconda battuta, a strozzare la libertà di stampa è la pressione economica. Per Rsf, «è un fattore grave e sottovalutato che indebolisce i media e che ha raggiunto un picco critico». Senza risorse stabili, non si riescono a fare inchieste, reportage, cronaca né si può assicurare pluralità. Dice ancora l’ong: «Le testate devono scegliere tra indipendenza e sopravvivenza. In una corsa ad attrarre lettori, spettatori o ascoltatori, sono preda di coloro che le sfruttano per promuovere fake news e propaganda». L’accondiscendenza verso i finanziatori è favorita dal fatto che i sostegni pubblici sono assenti, scarsi, distribuiti in modo poco trasparente. «La sostenibilità economica è una questione strutturale», riprende Bartoli, «ed è legata alla proprietà dei media, talora appartenente allo Stato oppure molto concentrata. Un problema di cui soffre pure il nostro Paese. Dominano editori impuri, imprenditori con affari variegati o figure con interessi politici anche diretti. Dunque, condizionati e condizionabili». Dunque, non inclini a rispettare le prerogative della professione giornalistica e a considerare prioritaria la qualità del lavoro: «In un quadro simile, è facile che scattino meccanismi di censura o autocensura».

 

Sulla qualità, inoltre, incide la piaga del precariato. Il presidente dell’Ordine sottolinea sia l’alto tasso di disoccupazione tra gli iscritti all’Albo dei giornalisti sia l’impiego massiccio di tipologie contrattuali a termine, senza copertura legale o assicurativa, con retribuzioni basse. «La legge sull’equo compenso, di cui è firmataria Giorgia Meloni, è in vigore dal 2023. Ma la struttura istituita dal ministero della Giustizia per vigilare sui parametri della remunerazione dei liberi professionisti, sul loro aggiornamento e sulla loro applicazione è in stallo: per noi queste norme rimangono scatola vuota. Eppure, solo pagando di più si può esigere che il lavoro sia svolto al meglio».

Intanto l’Italia scivola dal 46° al 49° posto nella classifica della libertà di stampa, tra gli ultimi in Occidente. Da «abbastanza buono» il panorama diventa «problematico». A quasi 40 anni dall’assassinio di Giancarlo Siani per mano della camorra, Bartoli rimarca come le minacce della malavita continuano a imporre la scorta a tanti. «In generale, s’è incrinata la fiducia della collettività in quelle che sono percepite come emanazioni del potere. Compresa la nostra categoria. Che, peraltro, ha la cattiva abitudine di parlare male di sé stessa. Dal canto loro, i politici alimentano la delegittimazione e il dubbio che l’informazione sia prezzolata. Auspico, invece, che smettano di sottrarsi alle domande. Al contempo, invito le testate a cestinare le dichiarazioni autoprodotte dai partiti. Il confronto giova a tutti».

 

I nodi da sciogliere sono numerosi. Dalle querele temerarie, per cui mancano le contromisure, alla riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa: «Si profila un inasprimento delle sanzioni pecuniarie, unito ad aspetti vessatori. Si vuole, ad esempio, che il procedimento si basi nel luogo dov’è stata sporta la querela e non dov’è avvenuto il fatto». Poi le restrizioni alla cronaca nera e giudiziaria: «L’attuale governo è in linea con il precedente». Un nuovo “bavaglio”, infatti, vieta la pubblicazione integrale o per estratto delle ordinanze che dispongono misure cautelari personali sino alla fine dell’udienza preliminare o, se questa non è prevista, delle indagini.

 

«Ugualmente allarmanti sono certe parti del decreto Sicurezza, adesso legge, che minano l’espressione pacifica del dissenso e il segreto sulle fonti dei giornalisti. Soprattutto per intimidire chi fa inchiesta». Il riferimento è all’obbligo di collaborare con l’intelligence, trasferendo dati sensibili, per alcuni enti pubblici. Rai in testa. «Preoccupava già la circolare con cui l’azienda chiede che i filmati dei freelance siano consegnati “vergini”, in versione integrale. E non si dimentichi che, per quanto riguarda la sua governance, l’Italia vìola l’European Media Freedom Act; il regolamento Ue stabilisce che, negli Stati membri, il servizio radiotelevisivo pubblico sia al riparo da ingerenze dell’Esecutivo. Il Parlamento abbia la forza e la lungimiranza di cambiare il sistema delle nomine».

 

Chissà se l’appello sarà accolto. Nel frattempo, «s’è scoperto che i telefoni di colleghi e attivisti sono stati spiati con tecnologie capaci di captare ogni contenuto. Ma non si sa da chi e perché. È inaccettabile», aggiunge Bartoli. Che chiude con un monito: «I giornalisti agiscano con scrupolo e dignità. Il mondo ricordi che, se muore il giornalismo, muore la democrazia».

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