Attualità
22 agosto, 2025Il filo di continuità tra Bergoglio e Prevost, due pontificati diversi, ma radicati in un orizzonte comune: un credo che non teme di esporsi, di fare domande, di cercare la verità
Così si è presentato agli occhi del mondo il trapasso da Francesco a Leone XIV: un transito interiore più che istituzionale, spirituale più che cerimoniale. L’eredità di Bergoglio, sepolto con le sue scarpe lise, non ha preso la forma di un testamento, ma quella di un fuoco ancora acceso: non insegnamenti, ma intuizioni e slanci. Il suo pontificato è stato di frutti, ma soprattutto di semi, con una sua propria francescana eccezionalità e genialità. Il valore e gli effetti della sua eredità si misureranno con la prova della storia (e non dei blog). Chi guarda indietro cercando un “sistema Francesco” rimane deluso. Non ci sono programmi, non c’è una teoria. C’è invece una pratica, apparentemente disordinata, come la vita reale, sempre radicata in una teologia dell’esperienza. Il suo principio era semplice: la realtà è sempre superiore all’idea. In tempi di teologia da scrivania e geopolitica da algoritmo, lui si immergeva nel dolore concreto delle persone, nella carne viva delle ferite. La sua ultima strategia geopolitica è stata quella di fare videochiamate al parroco di Gaza, anche quando era ormai senza più voce. Ha governato con il discernimento, non con il decreto. Istintivamente anticlericale, ha stigmatizzato l’“indietrismo”, come lo chiamava lui, cioè il sogno regressivo di una Chiesa ridotta a impero. La sua riforma è stata una conversione spirituale più che un rimpasto di uffici. E la sua teologia ha avuto la forma di un abbraccio: mai astratta, mai algoritmica, sempre aperta: «Todos, todos, todos» è stato il suo motto.
Sul suo successore si sono immediatamente proiettate le luci di un grande conflitto di interpretazioni: tra chi ha dipinto Leone XIV ora come il restauratore della «vera» tradizione, e chi come un clone del suo predecessore. La figura di Prevost è stata subito saturata dalle luci di attese opposte. Forse anche per questo il suo passo in questi primi 100 giorni è apparso felpato. Il nuovo papa ha scelto il nome Leone. Non ha voluto stupire, né rassicurare. Si è limitato a respirare la tensione di quel momento. A raccoglierla con discrezione. E a portarla in avanti. Lo ha fatto, significativamente, parlando di «inquietudine». Non come disagio psicologico, ma come condizione spirituale. È in questa parola che si consuma e si ricompone il passaggio tra i due papi. Francesco l’aveva evocata spesso, rivolgendosi a chi conosce la vertigine del desiderio mai appagato: di senso, di vita, di riconoscimento. Leone l’ha scelta come prima parola pubblica del suo pontificato. Un filo teso tra due pontificati diversi, ma radicati in uno stesso orizzonte: quello di una Chiesa che non teme di esporsi, di perdersi, di camminare sul crinale. «In uscita», la definiva Francesco; «estroversa», l’ha definita Leone. Anzi, con una espressione fulminante, Prevost ha aggiunto: «Il popolo di Dio è più numeroso di quello che vediamo. Non definiamone i confini». Il cuore inquieto di Agostino diventa per lui il paradigma del credente contemporaneo: non colui che «possiede» la verità, ma colui che la cerca incessantemente, nella storia e con la storia. E in questa prospettiva, anche la dottrina sociale della chiesa va riletta, ha detto: «Non vuole alzare la bandiera del possesso della verità», ma insegnare «ad avvicinarsi», ad abitare le domande. Prevost non è dunque un Papa che propone ricette, ma un pastore che invita a gettare le reti della fede là dove le domande si moltiplicano. Lo ha detto chiaramente: ogni generazione ha i suoi problemi, i suoi sogni, le sue sfide. Ed è solo «gettando lo sguardo lontano» che si può intercettare ciò che lo Spirito sta suggerendo. Non è una visione rassicurante, ma è proprio qui che si apre la possibilità di un cristianesimo che considera superato definitivamente il «regime di cristianità». Ha spogliato la Chiesa dell’armatura imperiale, ha rifiutato l’alleanza con i potenti di turno, ha detto no al cristianesimo identitario, a quello dei vessilli e delle bandiere. E Leone, fin dai suoi primi passi, ha raccolto questa sfida.
È un papa americano, Leone. E questo non è un dato secondario. Il pontificato, con lui, resta nel continente americano. Il che significa che continua un’esperienza ecclesiale capace di leggere il mondo da un’altra angolazione, meno legata al vecchio asse eurocentrico, che comunque non gli è affatto estraneo. Francesco e Leone portano in dote al pontificato una sensibilità pastorale concreta, un’attenzione alle periferie, una fede che conosce la migrazione, la pluralità culturale, l’ibridazione. E poi, come Francesco era gesuita, Leone è agostiniano. Entrambi religiosi, dunque. Entrambi formati dentro una spiritualità che non si accontenta del pensiero sistematico, ma cerca, lotta, si lascia ferire. Questo dato, apparentemente marginale, ha un senso profondo: i due papi non vengono da carriere curiali, ma da scuole interiori e pastorali. Portano addosso l’inquietudine delle loro tradizioni spirituali: l’uno segna la via del discernimento ignaziano, l’altro della tensione agostiniana dell’inquietudine.
Leone ha molto a cuore l’unità della Chiesa, non come compattezza ideologica, bensì come comunione di differenze. Ha fatto pienamente suo in questo senso il processo sinodale che rifugge l’uniformità di chi ripete lo stesso slogan, ma desidera l’armonia di chi, nella diversità, si riconosce parte di uno stesso corpo. La Chiesa che esce da questo passaggio da Francesco a Leone è una Chiesa inquieta, ferita, vulnerabile. Eppure, è proprio questa fragilità che le restituisce credibilità. Perché solo chi cerca, può ancora trovare.


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