Attualità
25 agosto, 2025Un recluso su cinque fa uso di psicofarmaci, più di uno su tre di ipnotici. La salute mentale dietrole sbarre non è un diritto. E i farmaci diventano la soluzione per tutto
Il 12 per cento della popolazione detenuta in Italia presenta una diagnosi psichiatrica grave. È una percentuale in aumento e fotografa una delle criticità più profonde e strutturali del sistema penitenziario: la gestione della salute mentale. Il disagio psichico in carcere si muove lungo due direttrici. Da una parte ci sono persone che entrano già con patologie pregresse, spesso legate a condizioni di marginalità, dipendenza, povertà. Dall’altra, detenuti che sviluppano disturbi all’interno dell’istituto, come risposta all’impatto psicologico della reclusione.
Secondo i dati raccolti da Antigone, l’associazione impegnata nella tutela dei diritti nel sistema penitenziario, oltre il 20 per cento dei detenuti assume psicofarmaci: antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici. Spesso utilizzati non soltanto a scopo terapeutico, ma anche come strumento di sedazione collettiva. A Modena questa quota arriva al 44 per cento, a Trento tocca il 70 per cento. Il 40 per cento della popolazione carceraria fa uso di sedativi o ipnotici.
In assenza di alternative, la somministrazione di farmaci diventa la risposta standard, a volte l’unica. L’assistenza psicologica resta carente: 6,76 ore settimanali di psichiatra ogni 100 detenuti, 20,6 per gli psicologi. Troppo poco per un supporto vero: i colloqui sono brevi, i percorsi discontinui, i casi gravi lasciati a sé. In molte strutture, la presenza di personale specializzato si limita a pochi giorni – o persino a poche ore – alla settimana.
Alle carenze sanitarie si sommano quelle strutturali. Più di un terzo degli istituti visitati da Antigone è stato costruito prima del 1950, molti addirittura prima del 1900. Celle roventi in estate e gelide di inverno, senza raffrescamento né riscaldamento, acqua calda assente in quasi metà delle strutture, un quarto delle carceri senza spazi per attività o lavoro. Il sovraffollamento completa il quadro. Al 30 aprile 2025, i detenuti in Italia erano 62.000, contro una capienza regolamentare di circa 51.000 posti. In alcuni istituti, come San Vittore a Milano, il tasso di affollamento ha superato il 220 per cento.
Il risultato è una spirale che si autoalimenta. Nel 2024 sono stati 91 i suicidi in carcere, il numero più alto mai registrato in Italia. Nei primi sette mesi del 2025 siamo già a 37. Giovani, stranieri, in attesa di giudizio, accusati di reati minori: è questo l’identikit più frequente. Poche settimane fa, a San Vittore, un 22enne si è impiccato in cella. I suicidi si concentrano soprattutto nel primo periodo di detenzione, quando l’impatto è più violento e l’assistenza minima.
Alla radice c’è anche una questione di impostazione: il carcere italiano fatica a rispondere alla funzione rieducativa prevista dall’articolo 27 della Costituzione. Il modello teorico punta al reinserimento sociale, ma la quotidianità racconta altro, e la logica punitiva continua a prevalere su quella riabilitativa.
Eppure, modelli alternativi esistono, anche in Italia. Il carcere di Bollate, nel Milanese, si fonda su un impianto partecipativo. I detenuti lavorano, studiano, gestiscono un ristorante aperto al pubblico, collaborano alla redazione di un giornale interno. Il principio è quello del “carcere aperto”, basato sulla responsabilizzazione e sull’acquisizione di competenze. I tassi di recidiva sono bassissimi (si attestano sul 7 per cento), le condizioni di vita sono migliori, le tensioni più contenute. Ma estendere esperienze simili richiede risorse, personale e una visione politica stabile.
Guardando all’Europa, mentre molti Paesi si orientano verso carceri sempre più grandi, crescono anche modelli di detenzione su piccola scala che mettono in discussione l’efficacia delle grandi strutture carcerarie. In Scandinavia, celle simili a stanze universitarie e relazioni fondate sulla fiducia tra detenuti e operatori contribuiscono a una recidiva inferiore al 20 per cento. In Norvegia e Svezia funzionano le open prison, fondate sul principio della responsabilizzazione. E la mappatura di Rescaled, rete europea che promuove il superamento del modello di detenzione tradizionale, mostra sviluppi anche altrove. In Belgio e Lituania, per esempio, si stanno diffondendo le transition house, strutture aperte, a basso livello di sicurezza, pensate per accompagnare i detenuti verso il rilascio.
Un’alternativa concreta rispetto al modello punitivo ancora dominante in molti Stati americani (con le Supermax) o rispetto alle radici storiche del sistema carcerario moderno degli Usa. Come l’Auburn system, nato nello Stato di New York nel XIX secolo, che prevedeva che i detenuti lavorassero insieme in silenzio durante il giorno e fossero isolati durante la notte: secondo questa impostazione, il lavoro e la disciplina erano considerati strumenti di redenzione.
Un altro archetipo storico è il Pennsylvania system, sviluppato nell’Eastern State Penitentiary di Philadelphia dal 1829 e poi replicato in diverse strutture. Il modello si basava sull’isolamento totale: ogni detenuto in una cella singola, privo di contatti umani, con l’unica compagnia di una Bibbia. L’edificio stesso rifletteva questa visione, con sette bracci disposti a raggiera intorno a una torre centrale di controllo. L’idea (di impronta religiosa) era che solitudine e silenzio avrebbero favorito il pentimento. Ma già all’epoca emersero gli effetti devastanti sull’equilibrio psichico dei detenuti. Molti di loro hanno raccontato anni dopo che quel modello generava rabbia e frustrazione, e non favoriva il reinserimento sociale. Col tempo, il carcere venne trasformato, le celle diventarono collettive e nel 1971 l’Eastern State Penitentiary fu chiuso; oggi ospita un museo per sensibilizzare proprio sul sistema di giustizia penale.
Ma l’isolamento non è affatto un relitto del passato. In Italia è ancora utilizzato – per ragioni disciplinari, sanitarie o di protezione – e spesso si trasforma in punizione vera e propria. I provvedimenti (limitati a un massimo di 15 giorni consecutivi) sono in aumento. Le celle dell’isolamento sono anguste, senza arredi, con scarsa ventilazione. In alcuni casi i detenuti restano senza materasso, nudi, senza bagno. Gli effetti sono devastanti: ansia, depressione, disturbi del sonno, regressione cognitiva, sociofobia, perdita del senso del tempo. In queste condizioni, parlare di rieducazione è pura retorica. Il tasso di recidiva in Italia è del 68 per cento. Più di due detenuti su tre tornano a delinquere dopo aver scontato la pena. Nonostante le iniziative e le sollecitazioni sul tema – come in questi giorni gli scioperi della fame di magistrati e legali per i diritti dei detenuti – nulla si smuove. Le riforme non mancano, ma faticano ad andare oltre la carta. Il decreto carceri, approvato per ridurre il sovraffollamento e migliorare le condizioni di detenzione, è ancora fermo dopo più di un anno.
A pesare non è solo l’inerzia istituzionale, ma anche un clima culturale ostile. L’opinione pubblica vede il carcere come un mondo distante, che riguarda solo chi è ai margini, “chi ha sbagliato” e quindi deve pagare. Di conseguenza, chi governa è riluttante a investire. Indulti per reati minori, più misure alternative, puntare su rieducazione e reinserimento, formare più personale, riqualificare gli spazi: tutto questo richiede soldi, tempo, volontà politica, e non porta consensi. Ma i diritti delle persone detenute non sono in contrasto con quelli dei cittadini liberi, anzi, vanno di pari passo. Un carcere che punisce senza rieducare è un loop che si ripete: chi esce, spesso torna al punto di partenza. E le conseguenze ricadono su tutti.

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