Attualità
26 agosto, 2025L’ultimo incidente al largo di Lampedusa è costato la vita a 23 persone. Ma sulla dinamica dei fatti manca la trasparenza. Perché la priorità è non creare altri casi simbolo per l’opinione pubblica
Stavano tornando da una festa in barca, Mery e Luca, come ogni anno nella settimana di Ferragosto. Il mare a Lampedusa era calmo, «il mare più bello del mondo», come lo definisce Mery. «La nostra barca aveva l’attracco proprio accanto al Molo Favaloro», racconta la donna, «un ragazzo che era con noi si è accorto che sul molo c’era tanta polizia con mascherine e guanti. Ci giriamo e vediamo questo sacco blu trasportato dai poliziotti e messo sotto un tendone. Subito dopo ne vediamo un altro. Credo che uno dei due fosse quello contenente la neonata. Era piccolissima. Quel telo che la avvolgeva era un rettangolo piccolo così», continua indicando con le braccia le misure del corpicino di 11 mesi recuperato a circa 13 miglia da Lampedusa.
All’alba di mercoledì 13 agosto due barconi partiti da Tripoli si sono capovolti poco distanti dalla porta d’Europa. Alla partenza erano due, poi le persone sono state costrette a spostarsi tutte su una sola imbarcazione che presto ha iniziato a imbarcare acqua, rendendo sempre più precaria la situazione a bordo già molto instabile a causa del sovraccarico. «Dopo è arrivata una grande onda e la barca si è ribaltata», hanno continuato a ripetere per giorni i 58 superstiti accolti dentro l’Hotspot di Contrada Imbriacola. Un tempo interminabile di caos in mare comincia a mietere le prime vittime, quando sono arrivati i soccorsi le persone sono già tutte in acqua e molte affogate da ore.
Sono circa le 14 e 30 quando Mery rientra in porto, nello stesso istante in cui dalla motovedetta della Guardia Costiera vengono portati a terra i primi corpi e i superstiti. «Le persone sono arrivate a scaglioni, completamente esauste, bagnate fradice, in un gravissimo stato di shock», racconta Francesca Saccomandi, operatrice di Mediterranean Hope, organizzazione che da anni opera sull’Isola, «noi non siamo stati allertati dalle autorità come normalmente succede, di solito prima di uno sbarco riceviamo la chiamata da parte della Capitaneria di Porto e dalla Guardia di Finanza, quel giorno siamo arrivati al molo per puro caso, e solo una volta lì ci siamo resi conto che la maggior parte delle organizzazioni umanitarie internazionali non erano state allertate. Gli unici che erano più preparati erano gli operatori della Croce Rossa, che avevano portato un’ambulanza extra perché sapevano quello che stava accadendo. È un dato che descrive una volontà, se non altro, di nascondere qualcosa», continua Saccomandi.
Al Molo Favaloro si susseguono per tutta la giornata sbarchi di persone e salme, l’ultima alle 20 e 50 trasferita velocemente al cimitero di Cala Pisana, accatastata con le altre 22 bare in quella che dovrebbe essere la camera mortuaria dell’isola, in mezzo al cantiere di quello che sarà il nuovo cimitero, tra decine di loculi vuoti.
È ormai notte, e nel buio del cimitero una torcia illumina la fila di bare poste l’una sull’altra. «Dovete andare via, andate via» urla ai giornalisti chi si sta occupando di fare quell’operazione. Così le bare scompaiono dietro una porta bianca di plastica. Nessuno le vedrà più per i successivi tre giorni, neanche i sopravvissuti al naufragio, neanche chi tra loro è un familiare delle vittime. Non gli sarà mai permessa una cerimonia collettiva, non una preghiera. Non per la donna somala alla quale è scivolata dalle braccia la figlia di 18 mesi e che nello stesso mare ha perso anche il marito. Non per la donna che ha visto scomparire tra le onde sua sorella. Non per il giovane egiziano al quale il mare ha portato via il migliore amico, con cui era stato per otto anni in Libia.
Ma di questo poco sembra importare all’isola in subbuglio per la festa di metà agosto. Il 14 notte la puzza di cadavere che proviene dalla camera mortuaria non refrigerata del cimitero di Cala Pisana disturba chi va verso la discoteca che si trova a pochi metri di distanza. Qualcuno si chiede cosa sia quell’odore, mentre chiude a chiave la macchina, beve un’ultima birra, e si dirige alla festa. Poco prima una piccola fiaccolata al santuario di Porto Salvo era terminata con: «Fa che stragi così non si ripetano più», l’unico segno di vicinanza da parte dei lampedusani a ciò che era appena successo.
Ma stragi come questa a Lampedusa si vedono tutti i giorni, cambia solo l’entità dello scalpore mediatico in base al numero di vittime e quindi la possibilità di venirne a conoscenza o no.
«Nei giorni precedenti al naufragio abbiamo volato quasi ogni giorno e abbiamo visto barche capovolgersi, persone cadere in mare, scomparire e morire», racconta Joseph Oertel, il coordinatore tecnico degli aerei di ricognizione di Sea Watch, «questo naufragio non è stato il primo nelle ultime settimane. Purtroppo, in quel giorno specifico, non potevamo volare perché non avevamo un aereo dal momento che il governo italiano ha messo sotto detenzione il nostro SeaBird 1. Ma è molto sospetto che una nave arrivi così vicino a Lampedusa senza che nessuno sappia nulla. Frontex era operativo nei giorni precedenti, con droni, aerei, navi e satelliti. Prima si individua una barca instabile, prima si può fare pressione sulle autorità per far intervenire i soccorsi. Nel caso del naufragio del 13 agosto, c’erano navi di Ong vicine, completamente attrezzate e addestrate che non sono state informate. È scandaloso. Noi lo abbiamo detto il giorno in cui SeaBird 1 è stato fermato: questo porterà a più morti e a meno responsabilità».
Si sa ancora poco su quanto sia successo quella mattina in mare e in cielo, di certo c’è che a Lampedusa è sempre più evidente la volontà di nascondere ciò che accade. «Anche verso il pubblico, i giornalisti e le organizzazioni che operano a Lampedusa, le autorità sono state poco trasparenti su questo naufragio, hanno cercato di tenere nascoste le informazioni su cosa sia realmente successo e sul perché le autorità italiane abbiano reagito così tardi – conclude Oertel – Italia e Unione Europea volano e monitorano costantemente la situazione, ma non condividono le immagini o le informazioni con il pubblico. È un modo studiato e disonesto in cui solo una parte ha accesso ai dati e alla narrazione sulla migrazione. Sono i governi di destra a decidere cosa accade, e le conseguenze negative delle loro politiche vengono coperte e mascherate».
Intanto sull’isola continuano le identificazioni e i riconoscimenti dei corpi, mentre Tareke Brhane – presidente del comitato tre ottobre – coordina alcuni familiari che vivevano già in Europa e, dopo aver saputo del naufragio, sono voluti andare a Lampedusa per riconoscere i propri cari defunti. «Sono 13 le salme che ad oggi sono state riconosciute, su un totale di 23», ha dichiarato Brhane sabato scorso, «ma il punto non è questo, bensì che spesso nonostante i riconoscimenti le bare non vengono nominate e quindi seppellite in Sicilia senza poter sapere dove. Se i familiari non le trovano in tempo finiscono in fosse comuni, questo è il problema che abbiamo avuto e continuiamo ad affrontare con le vittime del naufragio del 3 ottobre 2013. Non c’è ancora una banca dati, quindi le informazioni raccolte dalla scientifica, se non vengono messe tutte insieme, poi sono difficili da ritrovare per i familiari».
Sempre sabato le prime dieci bare, trasferite la sera di venerdì da Lampedusa, sono arrivate a Porto Empedocle, «senza sapere secondo quale criterio fossero state scelte quelle al posto di altre», ha sottolineato l’uomo; considerando che tra quelle dieci, cinque erano ancora senza nome. «Il problema in queste cose è che non esistono delle procedure chiare per il riconoscimento dei corpi», conclude Saccomandi, «purtroppo la lente con cui vengono letti questi fatti è quella della criminalizzazione delle persone in movimento. La cosa di cui il governo si occupa sono le indagini, ma non ci sono invece delle procedure che mettano al centro il tentativo di dare un nome a queste persone. Quello che si fa normalmente è fare domande a chi sopravvive, però queste non forniscono informazioni efficaci perché il loro fine non è quello di ricostruire l’accaduto, fare giustizia e dare un nome alle vittime, ma solamente trovare un colpevole».
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