Cultura
28 agosto, 2025Applaudito in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, "Bugonia" racconta con accenti sadico-grotteschi l'Apocalisse ambientale che ci minaccia. Ma il regista di "Povere creature" sembra ormai prigioniero del suo marchio
Complottisti di tutto il mondo, unitevi. Ora avete un film che vi rappresenta, un eroe che combatte per la vostra causa, qualsiasi essa sia, e un attore che incarna a meraviglia l'abnegazione necessaria a sfidare tutte le pseudo-certezze che ci propinano ogni giorno: un irriconoscibile Jesse Plemons, protagonista accanto a una Emma Stone rapata a zero dell'ultima follia di Yorgos Lanthimos, il greco più pazzo del mondo, ormai stabilmente trapiantato nel cinema Usa.
Molto applaudito in Concorso a Venezia, in sala dal 23 ottobre, il film si chiama “Bugonia”, dal capitolo delle Georgiche di Virgilio dedicato al mito della generazione spontanea. E se usiamo tante frasi fatte è perché anche il film, almeno per una buona parte, fa tutto ciò che ci aspetteremmo visto il tema. Con quel gusto ora grottesco ora iperrealistico per la violenza dei gesti e dei sentimenti che il regista di “Povere creature”, ma ancor prima di “The Lobster”, e “La favorita”, ha ormai elevato a prodotto per le grandi platee. Con buona pace di chi almeno agli inizi pensava fosse un innovatore puro e duro.
Perché le api, così preziose per la nostra sopravvivenza, si fanno sempre più rare? Lo smagritissimo Plemons, operaio e apicultore dai capelli lunghi e perennemente sporchi, non dovessimo capire che è uno sfigato, ha una teoria delirante ma molto articolata, con tanto di prove “scientifiche” a sostegno. La colpa è di certi misteriosi alieni venuti da una remota galassia che governano il pianeta camuffati da umani per dominarci meglio. E una di queste minacciose creature è la top manager di una grande azienda chimico-farmaceutica che sorge non lontano dalla sua fattoria, Emma Stone appunto.
Troppo bella, troppo ricca, troppo spietata, troppo griffata, troppo attenta a ogni possibile lusso estetico-salutista. Mentre Plemons e il cugino tonto che gli dà una mano nell'impresa (Aidan Delbis) sono due esempi purissimi di “white trash”. Due bifolchi soli e pieni di rancore (la mamma di Plemons ha fatto una brutta fine per colpa dell'azienda della Stone) che si cacciano in un'impresa più grande di loro. Prima sequestrando la manager in pieno giorno (ecco il grottesco). Poi sottomettendola a un lungo “processo” privato che almeno in Italia non può non evocare quelli inflitti dalle Brigate rosse alle loro vittime.
La metafora è ovvia. Le diseguaglianze crescono e con esse l'ignoranza, mentre sul web le teorie più folli viaggiano indisturbate facendo sfracelli soprattutto negli strati più indifesi. Dropout contro possidenti, insomma. Poveracci in guerra contro il famoso 1 % che domina il pianeta (“La laurea? Un trucco per mascherare il privilegio”, decreta Plemons che da bravo complottista ha una contro-risposta per tutto). Facile no? Per fortuna però non è tutto qui. E “Bugonia”, che sulle prime sembra un po' ricalcare i fratelli Coen di vent'anni fa, con molto cinismo in più (i Coen amavano quasi sempre i loro personaggi, Lanthimos quasi mai), svolta in una direzione inattesa, da non raccontare assolutamente, che riscatta almeno in parte le mille inverosimiglianze su cui dobbiamo chiudere un occhio. Dando accenti profetici e perfino apocalittici a un film che non si risparmia nessuna banalità sanguinaria e a un plot che una volta messe a fuoco le premesse va proprio come ti aspetteresti.
Come usa oggi in un cinema sempre più controllato da produttori e sceneggiatori (lo script è firmato Will Tracy, al suo attivo serie come “The Menu” e “Succession”). Tanto per ricordarci che ogni relazione si basa su rapporti di forza. E in tempi di grandi concentrazioni (e grandi piattaforme) la bilancia ha smesso da un pezzo di pendere dalla parte dei registi. L'unico spazio di creazione che sembra essere loro concesso, è ormai quello interno al "marchio" che hanno costruito. Anche a Venezia.
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