Attualità
16 settembre, 2025Mancano i database ministeriali, spesso monchi e non aggiornati. Misurare male, omettere dettagli è una scelta politica. Lo denuncia l’ultimo libro di Donata Columbro
In Italia non esiste un registro pubblico con i dati dei femminicidi. Non esiste una banca dati chiamata “femminicidi in Italia” o “statistiche sui femminicidi”, dove andare a verificare, colonna per colonna, il conto degli omicidi di donne per motivi legati al genere. Con informazioni disaggregate che ci permettano di sapere quante di loro avessero subìto stalking, denunciato, o chiesto aiuto a un centro antiviolenza; quanti autori fossero stati segnalati per altri reati, se indossavano il braccialetto elettronico come misura cautelare del Codice rosso; se la vittima avesse lasciato dei figli, quanti, se minorenni. Non ci sono nemmeno i dati sui tentati femminicidi. Quelli sulle donne sopravvissute al desiderio di morte dei loro compagni o ex compagni, o persone che le volevano morte in quanto donne. Non possiamo sapere, con periodicità mensile o trimestrale, l’età di vittime né autori del delitto. Non ci sono dati sui compagni o le figlie e i figli delle donne, uccisi da altri uomini per vendetta o per procurare dolore alla persona che aveva detto loro più volte «No, non ti voglio, è finita, lasciami in pace».
Non conosciamo lo stato di disabilità delle vittime, se presente. Non c’è, dunque, un sito a cura del ministero dell’Interno o della Giustizia, o delle Pari opportunità, dove verificare in modo puntuale e rigoroso l’andamento del fenomeno che chiamiamo femminicidio. Gli unici dati istituzionali in cui troviamo la parola “femminicidio” sono reperibili in un report annuale curato dall’Istat con i numeri forniti da enti diversi e nelle relazioni della Commissione parlamentare d’inchiesta.
Quando ho scritto per la prima volta nel 2022 che “contare i femminicidi ci aiuta a ottenere giustizia”, ho usato le stesse frasi per denunciare l’assenza di dati, e così ripetevo in un articolo pubblicato da “Internazionale” nel 2023. Perché non è ancora cambiato nulla. Anzi, qualcosa è cambiato. Ma in peggio. Nel 2025, la pagina del servizio analisi criminale “Omicidi volontari e violenza di genere” ospitata sul sito del ministero dell’Interno, con dati settimanali fino al dicembre del 2024, e poi mensili nel gennaio del 2025, ha smesso di essere aggiornata.
Fino al 3 aprile 2025, dopo due femminicidi a distanza di ventiquattr’ore e una denuncia partita dalla mia newsletter e dalla mia associazione onData, con cui portiamo avanti iniziative per promuovere e tutelare l’accesso ai dati pubblici, cioè quei dati che parlano di noi e che abbiamo contribuito a produrre con le nostre tasse. Ma facciamo un passo indietro. Il 2 aprile 2025 invio una newsletter dal titolo Sciopero per femminicidio. Avevo un altro testo già pronto, ma non ho potuto spedirlo, non me la sono sentita. Mentre preparavo il numero previsto aggiornando i link e correggendo gli ultimi errori, ho ricevuto la notifica del ritrovamento del corpo di Ilaria Sula, studentessa di statistica all’Università La Sapienza di Roma, scomparsa il 25 marzo dopo essere uscita dal suo appartamento nel quartiere di San Lorenzo. Meno di ventiquattr’ore prima era morta accoltellata Sara Campanella, a Messina, per mano di un compagno di università che da due anni la perseguitava e non accettava di essere stato rifiutato. Da settimane monitoravo la pagina del ministero dell’Interno dedicata agli omicidi volontari, anche mentre scrivo queste righe è una scheda fissa aperta sul mio computer. A gennaio del 2025 da settimanale la frequenza era diventata mensile senza nessuna spiegazione, ma i mesi di febbraio e marzo erano rimasti vuoti. Senza alcuna indicazione della possibilità che quei numeri sarebbero tornati a essere pubblicati con una qualche regolarità. Insieme ad altri soci di onData eravamo in contatto da settimane con la sezione analisi criminale per l’aggiornamento di quei dati. Avevamo infatti preparato una serie di proposte per migliorare le tabelle e i dataset forniti al pubblico per rendere più accessibili, leggibili e utili i dati: per esempio, avevamo chiesto di rendere disponibile la serie storica, visto che i dati venivano pubblicati ogni mese in documenti separati, e il mese precedente cancellato. Oppure, avere una pubblicazione con dettaglio regionale, come nei report annuali, per rendere possibile l’analisi territoriale.
Avevamo chiesto di riportare i tentati omicidi e le fasce d’età delle persone coinvolte. E ci siamo anche spinti nel provare a proporre un miglioramento delle tabelle stesse, per cui i documenti potevano essere organizzati in modo che ogni colonna rappresentasse una variabile (data, regione, età, tipo di reato) e ogni riga un’osservazione. È esattamente quello che insegno all’università nei miei corsi sui dati, perché è così che si rende leggibile e comprensibile una tabella. Ma il servizio analisi criminale ci rispose che per loro quei dati “funzionavano bene così” e che la pubblicazione sarebbe diventata trimestrale. Il 2 aprile, però, i dati ancora non ci sono. Quel giorno, la notifica su Ilaria Sula fa scattare in me un moto di rabbia, e sì, agisco sull’onda dell’emotività, mandando una newsletter molto diversa dal solito. Migliaia di persone la leggono e la condividono. La mia denuncia viene ripresa da giornali e media. Viene letta alle manifestazioni di Non una di meno la sera stessa, in varie piazze d’Italia. E il 3 aprile compare il report trimestrale. Ma perché ci sono voluti due femminicidi a distanza di ventiquattr’ore, la mia newsletter, la notizia dell’interruzione del servizio ripresa da cinque-sei testate nazionali affinché il ministero decidesse di mettere online il rapporto? Come ho detto a molte colleghe giornaliste in quei giorni, il problema non è (solo) la periodicità, trimestrale o mensile. Non è il cambiamento, ma il fatto che non sia stato comunicato né raccontato. Come se quella pagina non la vedesse nessuno o non fosse importante. (...) «I dati sono purtroppo inequivocabili e mi dispiace che qualcuno li abbia alterati o non li abbia conosciuti», aveva dichiarato il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara in risposta a Gino Cecchettin, il 20 novembre 2024, dopo la presentazione della Fondazione dedicata alla figlia Giulia. Dati inequivocabili che avrebbero potuto dimostrare la relazione tra violenze sessuali e immigrazione irregolare, secondo il ministro. Certo, abbiamo percepito tutti e tutte la dissonanza cognitiva nel parlare di violenze commesse da stranieri davanti al padre di una ragazza uccisa dall’italianissimo Filippo Turetta, ma sappiamo anche che per questo governo ogni occasione di propaganda contro «l’immigrazione illegale di massa» (nuova espressione usata dalle destre al potere, non prima) è da cogliere al volo.
Finché c’è un pubblico e una telecamera pronta a riprenderla. Infatti, nell’aprile del 2025 il ministro della Giustizia Carlo Nordio torna alla carica e dice: «Se andiamo a vedere i femminicidi, il numero commesso dagli italiani è sicuramente maggiore. Ma tenuto conto del rapporto tra italiani e stranieri di dieci a uno, se si vanno a vedere i femminicidi commessi dagli stranieri allora la percentuale aumenta a scapito degli stranieri». Non è così. Secondo l’XI Rapporto sul femminicidio realizzato dall’istituto di ricerca Eures, che raccoglie i dati ma li pubblica dietro pagamento, il dato rilevante per l’ultimo anno, il 2024, è che stanno aumentando le donne straniere vittime di femminicidio. Se la preoccupazione del ministro fosse quella di proteggere le donne, sarebbe questo il modo di presentare i dati. Nel 2023, secondo l’Istat, il 94,3 per cento delle donne italiane è stata vittima di italiani, il 43,8 per cento delle donne straniere di propri connazionali. I femminicidi, come scrivono sia Eures che Istat, ma anche le Nazioni Unite, vengono commessi “in casa”, il luogo più pericoloso per donne, bambine e ragazze nei casi di violenza maschile.
© Giangiacomo Feltrinelli Editore
Milano. Prima edizione in “Scintille”
settembre 2025. Published by arrangement with The Italian Literary Agency

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