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17 settembre, 2025In teoria sistema di detenzione duro, volto a impedire le comunicazioni con i clan all’esterno. Nella pratica, una gruviera
Ordini e affari anche dal carcere. Anche dal 41-bis. In teoria sistema di detenzione duro, volto a impedire le comunicazioni con i clan all’esterno. Nella pratica, una gruviera, vuoi per mancanza di strutture a prova di blindatura assoluta, vuoi per mancanza di personale che limita i controlli, vuoi perché anche la gestione dell’applicazione del cosiddetto carcere duro passa per gli interventi dei magistrati di sorveglianza. Così, tra videochiamate estese agli affiliati con la complicità dei familiari, telefonini che riescono a superare le maglie dei controlli, provvedimenti più morbidi e contatti tra mafiosi e detenuti comuni, anche il 41-bis mostra la corda. Lo dimostra un’indagine di inizio anno che ha rivelato come i boss palermitani abbiano anche organizzato dei summit attraverso piattaforme di messaggistica criptate. «Questa inchiesta - secondo il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo - mette in luce la debolezza del circuito penitenziario, assoggettato alla criminalità organizzata».
Anni di indagini hanno del resto dimostrato che il capo in carcere resta tale. Tanto più se riesce a far sentire il proprio peso nella gestione quotidiana degli affari.
Come ha fatto Francesco Pedalino, al 41 bis a Oristano, ma in piena attività: non ha mai smesso di gestire conti e relazioni per la famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù. La moglie Concetta Profeta, figlia del boss Salvatore, era l’anello necessario per garantire le comunicazioni del martio e del figlio Gabriele, anche lui detenuto.
Il sistema delle chat criptate funzionava a meraviglia ma attraverso i telefonini recapitati in carcere si organizzavano anche videochiamate per dirimere controversie, raddrizzare l’andamento dei conti della famiglia mafiosa e progettare nuovi traffici di stupefacenti.
A Calogero Lo Presti, boss di Porta Nuova, per tutti Zio Piero, detenuto a cui erano concessi alcuni agi, aveva a cuore l’acquisto di una collana d’oro, omaggio dei sodali e simbolo di prestigio. Ma anche di una pistola per arricchire la propria santabarbara. Il carcere non era un problema perché, come hanno dimostrato gli investigatori, ai colloqui il boss veniva rifornito di telefonini a prova di intercettazione. Spesso, basta costruire all’interno del carcere una rete di comunicazioni per far marciare gli affari correnti all’esterno o promuoverne di nuovi.
«È inevitabile che si formino alleanze tra gruppi criminali», osserva il magistrato Alfonso Sabella. La coabitazione tra mafiosi e comuni garantisce ai primi un ponte per recapitare messaggi e far girare informazioni. L’edilizia penitenziaria offre più di un’opportunità di incontri da e verso le aree comuni e perfino nelle stesse sezioni.
Docce e passeggio, favoriscono rapidi scambi. E capimafia, seppur sottoposti al regime più duro, condividono persino gli spazi assieme a persone detenute per reati comuni, in celle una di fronte all’altra, nello stesso corridoio e con i blindati aperti, come documentato nel 2022 in commissione antimafia. Fa eccezione Sassari, dove l’isolamento dei detenuti al 41 bis dagli altri sembra garantito dalle modalità con cui è organizzata la struttura. «L’applicazione del 41-bis – commenta Stefania Ascari, deputata del M5S – è disomogenea non solo per le differenze strutturali tra gli istituti penitenziari, ma anche per la messa in pratica delle norme, che cambia in base ai provvedimenti dei magistrati di sorveglianza».
Dalle indagini emergono anche che dal carcere si procede a cooptazioni e affiliazioni a distanza. Del resto anche la simbologia cede il passo all’evoluzione tecnologica accelerata dalle necessità. Dentro e fuori è in corso quella che Marcello Ravveduto, docente di Storia pubblica digitale all’Università di Salerno, definisce «risemantizzazione del gergo mafioso».
Segni arcaici di potere e nuovi simboli di sovrappongono. Gli oggetti di lusso, dai gioielli, all’abbigliamento, consacrano rango e dominio. Anche in cella. Tanto più se replicano quello che i gregari in libertà ostentano sui social, accessibili anche a chi è dentro. Anche per questo Ascari aveva proposto un disegno di legge sull’apologia della mafia.
Le comunicazioni telefoniche dei boss passavano per le utenze di una compagnia spagnola. Le scambio di chat, note vocali e immagini avveniva invece tramite la piattaforma di un’azienda con base a Malta. Ottenuti i dati dalle società, gli investigatori hanno dimostrato l’esistenza di accordi e affari tra le famiglie di Palermo e i clan calabresi dei Bellocco, fornitori di droga. «Oltre ai dissuasori che impediscono telefonate e collegamenti a Internet, bisognerebbe fare un monitoraggio costante e mirato dei detenuti per reati di associazione», suggerisce Sabella. Basta, insomma, che anche nella guerra tecnologica, lo Stato non resti indietro.
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