È successo più o meno tutto ciò che era previsto. E tra le cose previste – soltanto un imprevisto l’avrebbe salvata – c’era la fine della segreteria di Enrico Letta al Pd. Il 19 per cento non è sufficiente per un partito che si è atteggiato a unica alternativa alle destre: strategia sbagliata, propaganda sbagliata, impostazione sbagliata. Adesso s’è capito, e non si fa ironia, perché il Pd volesse una ordinata chiusura di legislatura e dunque volesse spingere le elezioni alla primavera (inoltrata) del 2023.
Ci si è chiesti a lungo, senza capirlo invece, perché Letta - brillante carriera universitaria all’estero, diventato simpatico dopo che Matteo Renzi era diventato antipatico, ambizioni future ben custodite - avesse accettato la chiamata di emergenza partita dal Nazareno dopo le improvvise dimissioni di Nicola Zingaretti e la timida adesione dem al governo di salvezza nazionale di Mario Draghi. Forse la risposta è nella reazione di Letta al fallimento elettorale: non lascia, non accusa (tranne Giuseppe Conte), resta al suo posto finché non arriva un altro, prepara il congresso e non si candida a vincerlo. Dice arrivederci con educazione per non disseminare boli di rancore, che sai mai si torna, questa è casa nostra e dal tetto piove.
All’Espresso, in una recente intervista, ha spiegato che il Pd ha rischiato di morire almeno un paio di volte, e però è sopravvissuto. Poteva sembrare poco accattivante affrontare un argomento depressivo in campagna elettorale, ma di non certo non difettava in sincerità.
Oggi in conferenza stampa ha parlato di “nuovo” Pd. E sono tanti, che gli sono stati accanto o si sono dileguati in fretta, che non possono sentirsi protagonisti in un nuovo Pd essendo protagonisti del vecchio Pd da rifare. Se si vuole dare un senso prospettico alle vicende che accadono, vale la pena ricordare che il Pd ha partecipato a quattro elezioni politiche: non ha vinto mai, spesso ha perso pure male, ma ha governato quasi sempre. La riflessione potrebbe cominciare da qui.