La battaglia di Rina, Anna Frank di Roma: niente pensione, ora interviene il Tar

Rina Di Porto visse murata viva per sfuggire alle persecuzioni razziali nel '43. Nel 2005 ha chiesto il vitalizio. Ma le sue sofferenze non sono state ritenuti sufficienti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ora il provvedimento è stato ora annullato dal Tar del Lazio che ancora una volta bacchetta Palazzo Chigi

Anche Roma ha avuto la sua Anna Frank. Una ragazzina costretta a vivere murata viva in una casa, con la sua famiglia, per sfuggire ai rastrellamenti e scampare alla morte a cui sarebbe andata incontro una volta deportata in Germania. Ma tali sofferenze non sono state ritenute sufficienti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per riconoscere a quella che ormai è un’anziana quel minimo di sostegno economico previsto dalla legge. Palazzo Chigi, e nello specifico la Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali, ha così incassato l’ennesima bacchettata da parte dei giudici, che hanno bocciato pesantemente quel cavillo con cui alla donna era stato rifiutato il vitalizio e ordinato allo Stato di allentare subito i cordoni della borsa.

Non è la prima volta che la Presidenza del Consiglio dei Ministri nega gli assegni, pari a una pensione minima, agli ebrei vittime delle persecuzioni razziali in Italia, spesso sostenendo che essendo i richiedenti il vitalizio giovanissimi all’epoca dei fatti non avevano subito danni particolari. In questo caso, però, Palazzo Chigi è andato oltre.

LA STORIA
Rina Di Porto, figlia del commerciante Settimio, venne messa alla fame dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938. Al padre venne fatto chiudere il negozio di chincaglierie, merceria e giocattoli che aveva a Roma, unica fonte di sostentamento per la famiglia. E dopo l’armistizio proclamato da Pietro Badoglio, l’8 settembre 1943, scattata la “caccia all’ebreo”, la famiglia Di Porto fu costretta a “vivere presso un affittacamere, rinchiusi in una stanza e murati vivi, per la paura di essere catturati e deportati”. Di più: i fascisti saccheggiarono i beni dei Di Porto e li sottoposero a pestaggi. Tutto documentato dalla donna ma, dopo aver presentato la domanda per il vitalizio nel 2005, quattro anni fa si è vista respingere la richiesta.

L'INTERPRETAZIONE DI PALAZZO CHIGI
Palazzo Chigi ha sostenuto, appigliandosi alle norme previdenziali, che quell’assegno non era dovuto, visto che l’attività commerciale della famiglia della donna era intestata alla madre, Alda Moscati, come risulta dall’elenco delle aziende delle famiglie ebree pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 26 dicembre 1939, e “qualora il coniuge collaborava nell’esercizio di un’attività commerciale con l’altro coniuge, senza essere contitolare della licenza, si riconosce il diritto all’assegno vitalizio di benemerenza solo al titolare della licenza o ai contitolari”. Rita Di Porto ha impugnato quel provvedimento, che è stato ora annullato dal Tar del Lazio.

L'INTERVENTO DEL TAR
Il presidente della I sezione del Tribunale amministrativo romano, Raffaele Sestino, ha bacchettato per l’ennesima volta Palazzo Chigi, ricordando quanto stabilito dalla Corte dei Conti e dal Consiglio di Stato in tema di vitalizi agli ebrei perseguitati: “Si deve propendere per interpretazioni volte ad accordare anziché ad escludere le concessioni del beneficio”.

Il Tar, annullando il provvedimento con cui la Presidenza del Consiglio aveva negato alla donna il vitalizio, ha così sottolineato che “ciò che rileva ai fini dell’esistenza dei fatti persecutori non è la formale intestazione di un provvedimento amministrativo, ma la accertata lesione di un diritto costituzionalmente protetto, che deriva da un fatto illecito e persecutorio perpetrato dallo Stato”. I giudici hanno così obbligato Palazzo Chigi a “decidere favorevolmente e senza ulteriore indugio” sulla domanda dell’anziana. Insomma vitalizio subito.

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