Roberto Saviano ha scritto la prefazione di 'Dispacci' storico libro sul conflitto nel Sud-est asiatico. E spiega che la forza di quel racconto, firmato Michael Herr, sta nella capacità di assumere il punto di vista dei perdenti

Apocalypse Vietnam

Dispacci è un romanzo di guerra. Scritto con i caricatori. Un romanzo sul Vietnam, un romanzo-reportage, un romanzo dove lo stile è letterario, ma la materia è realtà, dove il metodo è quello di una ricerca fatta con gli occhi, le sensazioni, i dati, le percezioni, le interviste, la partecipazione alla battaglia, il vomito, l'allegria, il cinismo, la crudeltà, l'euforia, la dannazione. Il mezzo è la scrittura e il metodo della scrittura è lo sguardo umano.

Michael Herr va in Vietnam da scrittore e non da giornalista. Per i soldati a cui tiene a fare questa precisazione, non sembra esserci alcuna differenza. Tanto è un mestiere ugualmente da imboscati. Andare in guerra da scrittore significa andare senza un compito preciso, senza dover tornare indietro con una notizia o un dato certo. Tornare anche senza niente, con solo un mucchio di sensazioni. Non scrivere nulla o scrivere solo dei dettagli. Studiare le mappe militari, capire il congegno di un mitra, stare a parlare per ore con un soldato, leggere le carte di un'operazione. Mettere tutto questo insieme all'odore del napalm e al bagliore improvviso dell'aurora nel sud-est asiatico. Questo è il reporter-scrittore come Herr aveva in testa di fare. E così fa. Raccoglie, osserva, macina, frulla tutto insieme nella sua scrittura. Dieci anni ha impiegato per scrivere 'Dispacci'. E dopo 'Dispacci' niente più. Mai più un altro libro. Forse perché, come scrive John le Carré, è il più bello mai scritto sulla guerra dopo l'Iliade.

"Il giornalismo convenzionale non poteva illuminare questa guerra più di quanto la potenza di fuoco convenzionale potesse vincerla, tutto ciò che poteva fare era scegliere l'evento più denso di significati del decennio americano e trasformarlo in un budino massmediale, prenderne la storia più palese e incontestabile e truccarla da storia segreta. E i migliori corrispondenti sapevano questo e altro..." dichiara Herr. Il Vietnam è la guerra più presente nelle nostre menti, nel nostro immaginario.

Più della seconda guerra mondiale, più della guerra dei trent'anni e della guerra dei sei giorni, più delle guerre puniche e delle guerre napoleoniche, più della guerra civile spagnola e di quella americana, molto più di qualsiasi conflitto venuto dopo: dalla Somalia alla Bosnia, dall'Iraq all'Afghanistan. E forse persino più della madre di tutte le guerre contemporanee, quella che non a caso ancora viene chiamata la Grande Guerra. Perché allora c'erano Céline e Jünger, Remarque e Barbusse, Lussu e Slataper e tutti i grandi poeti inglesi, ma non c'era la potenza di fuoco della grande cinematografia americana. Niente 'Apocalypse Now', 'Full Metal Jacket', 'Il cacciatore', 'Hamburger Hill', 'Rambo', 'Good Morning, Vietnam', 'Platoon'.

La guerra del Vietnam smentisce la frase pronunciata da Hermann Göring durante il processo di Norimberga: "la storia la scrivono i vincitori". La guerra del Vietnam è stata scritta esclusivamente dagli sconfitti. L'unica guerra persa dagli Stati Uniti, è diventata la guerra più rappresentata, al punto tale che Vietnam è un Paese pronunciato esclusivamente accanto al nome della nazione che l'ha aggredito, invaso, devastato e che infine si è ritirata sconfitta. E questo racconto della sconfitta e della vergogna, per la prima volta nella storia dell'umanità, diventa epica: perché il cinema di Hollywood oggi è l'unico strumento che riesca a costruirla.

Ci ha provato per mezzo secolo con la seconda guerra mondiale, la guerra vittoriosa, la guerra giusta, eppure se pensiamo alla guerra, vediamo gli elicotteri di 'Apocalypse Now' e il volto sfatto di Marlon Brando, udiamo il click della roulette russa del 'Cacciatore', sentiamo i marines che cantano "Topolin, Topolin, viva Topolin". Se si rendono epici non gli spartani che alle Termopili si sacrificano per rallentare l'avanzata dell'esercito persiano, non i serbi battuti dall'impero ottomano sulla Piana del Merli, non il massacro degli indiani Sioux a Wounded Knee, ossia l'eroica resistenza di qualsiasi piccola nazione o tribù, ma si trasforma in epica la sconfitta proprio delle truppe imperiali ed è lo stesso impero a crearne il racconto, allora significa che davvero qualcosa è cambiato.
 
Se si raccontano le contraddizioni di quel che accade ai soldati che si trovano in un inferno di afa torrida e insetti, di giungla e imboscate da parte di un nemico invisibile, comunque così estraneo che non saprebbero distinguerne i volti, decifrare i suoni della lingua, leggere la mimica e i gesti più elementari, ogni cosa che accade a questi uomini vale per se stessa, rimane nuda e cruda, non trova più il suo posto entro la cornice di un significato. La guerra non significa più niente, nemmeno la propria assurdità, neanche la denuncia di se stessa in quanto orrore, in quanto male. La guerra persa forse corrisponde soltanto al resoconto di una perdizione.

Eppure trovarsi rasoterra, al grado zero, offre allo scrittore che ne abbia la capacità e il coraggio un'enorme opportunità di misurarsi, testimoniare, raccontare e basta. È quello che riesce a Michael Herr. 'Dispacci' è un libro dalla storia bizzarra. I due capolavori cinematografici sulla guerra contro i vietcong, 'Full Metal Jacket' di Stanley Kubrick e 'Apocalypse Now' di Francis Ford Coppola, ne hanno tratto spunto. Anzi di più: Michael Herr ha collaborato alla sceneggiatura di entrambi. Due film antitetici sulla stessa guerra, due punti cardinali dell'immaginario - qui le grandi inquadrature, i colori lividi e sgargianti, l'apocalisse psichedelica e barocca, lì l'algida geometria che si dissolve in un delirio circoscritto, in un massacro da camera di un piccolo villaggio nella giungla - sono spuntati dalla costola dello stesso autore e dello stesso libro. Ancora oggi i soldati americani vengono addestrati guardando questi film, ficcandosi in testa le immagini che scorrono, immagini portate a galla da una stessa miniera che è 'Dispacci'. E quella miniera fatta di parole rimane comunque più ricca di entrambe le pellicole colossali. Perché è scritta da chi in Vietnam ci è stato. Ma anche perché la grande epica, persino un'epica della sconfitta, un qualche senso a quel che raffigura deve darlo, fosse anche quello della fine del mondo o della distruzione sistematica della persona umana.

Herr no, Herr resta giù nella sua miniera vietnamita e non fa altro che raccogliere e inanellare ciò che vede: terrore animale e crudeltà insensate, oscenità e disperazione, stordimenti e morte. Tutte le contraddizioni di quei ragazzi poco più giovani di lui può prenderle e sbatterle sulla pagina senza cercare di farle quadrare. Mettendo insieme due dei più grandi film mai girati e confrontandoli con un solo libro di trecento pagine, capisci quel che può fare la letteratura e il cinema no: tenere conto di tutto, anche soltanto raccontando e tanto basta per vedere la complessità. Un'opera letteraria unica in grado di non rinunciare al meccanismo del reale e di mantenere una bellezza di descrizioni e ritratti che pochissimi hanno saputo conciliare con il racconto degli orrori e del degrado.

Dalle prime pagine esplode una sorta di rabbia della scrittura. Ma non è una rabbia di stomaco, è qualcosa che viene da più lontano. Herr va in Vietnam, in una guerra dove non si può non stare da una parte e racconta dei soldati che vanno a crepare nei modi più atroci per le ferite più terribili. Racconta di vedere questi colpi di mitra contro dei blindati e si chiede guardando i fori dei proiettili contro questi mezzi corazzati, cosa faranno quei proiettili contro un uomo. Non racconta più la ferita, ma la condizione umana. La condizione umana che in guerra è condizione di una parte. Ho sempre amato Senofonte per questa sua parzialità. Perché riconosce che lo sguardo di chi racconta può essere onesto se si dichiara parziale e soprattutto perché per raccontare i mercenari greci si fa lui stesso mercenario. Herr con questo libro solidarizza con i marines perché è la parte che ha scelto, e non la parte che ha preferito. Perché bisogna avere una prospettiva iniziale. "Noi non piangiamo gli assassini che uccidono le famiglie vietnamite" gli diranno alcuni politici democratici. E Michael Herr risponderà: "Quando mai voi democratici siete riusciti a piangere per qualcuno?". Questa visione che ci si possa porre da un punto di vista morale equanime ed equidistante, discernendo tra torto e ragione, bene e male, in 'Dispacci' viene radicalmente contestata. Esistono solo parti, guerre, idee, scelte politiche, insomma esistono le cose che devono essere raccontate affrontate e scelte di volta in volta, senza pretendere di stare dalla parte del giusto. O del torto. E questo è un libro che insegna come trattare questi temi, temi che forse non sono altro che campi di prova estremi che ti insegnano come bisogna porsi da scrittori.

Michael Herr arriva a dire delle frasi secche che per chi vuole trarre le parole dal vissuto, valgono più di vari saggi d'estetica: "ti comporti come si deve e basta". La condizione della guerra è una condizione disumana dove tutto è sospeso. E questa sospensione è il laboratorio della scrittura. È forse per questo che 'Dispacci' mi ha accompagnato come un'ossessione. Una scrittura che fa di tutto prova, degli sfoghi, delle crisi di nervi dei soldati che non ne possono più, della storia di un soldato afroamericano che si masturba 40 volte consecutive, degli accessi di alcol, sesso e droga che anche se ti ammazzano, sono l'unico modo per sopravvivere. O il suo raccontare i morti, i morti ammazzati, l'impatto dei proiettili sul corpo, come se i proiettili dessero una nuova espressione al corpo traforato. "Quando fissi un morto ammazzato dai proiettili non lo dimentichi più", ti dice. Dovrebbe essere scontato vedere i morti in guerra. Ma la qualità di Michael Herr è quella di non essere mai cinico, mai il duro che tutto sopporta senza dar segno di cedere in nessun caso. Il chirurgo della parola. È semplicemente troppo vicino alle cose raccontate per esserlo, ai corpi massacrati e ai loro miasmi, allo schifo, alla follia.

Questo libro è bellissimo perché soltanto un calco dell'orribile può far comprendere che se anche lui, il lettore, si fosse trovato in quella situazione, se anche lui avesse deciso di vivere in quel modo, anche lui avrebbe potuto fare quelle stesse cose. Oppure il non farlo diviene una decisione più del corpo che della morale. "Come fai a sparare alle donne e ai bambini?" chiede un reporter di guerra a un soldato. La risposta di 'Dispacci', "è facile: non ci vuole mica tanto piombo", in 'Full Metal Jacket' diviene "è facile: corrono più lentamente" e sull'elicottero il reporter si mette a vomitare. Herr trascina il lettore in guerra. Ma per davvero. Non gli restituisce solo le immagini, ma i comportamenti. Il lettore non sente solo il puzzo del sangue e del napalm, ma sente lui stesso la rabbia e la paura, sente come sarebbe stato feroce, sente come è l'uomo quando per sopravvivere deve smettere di essere uomo. Se non avessi letto 'Dispacci' non avrei mai potuto scrivere quello che ho scritto. Ma questo sarebbe stato un danno minore. Invece se non avessi letto 'Dispacci' non avrei capito nulla della vita che faccio. La condizione umana della guerra è la stessa da sempre.

Dalle battaglie puniche alla guerra del Golfo. Ma nei dettagli tutto muta ed è lì che la voce dello scrittore diviene necessaria. In 'Dispacci' c'è azione continua, soldati che incontrano soldati, soldati che smettono di essere uomini, superano la condizione umana e superano gli obiettivi che neanche loro immaginavano di poter raggiungere. Nessuno dei marines crede davvero di combattere il comunismo andando in Vietnam, nessuno crede sia una guerra per portare la democrazia agli schiavi di Ho Chi Minh. Ma questa non è una buona ragione per non combattere e morire. Si ammazza nel momento in cui ci sono dei nemici. Ci sono delle operazioni dove si va verso una morte certa e sarebbe possibile scappare. Ma i marines non scappano. Si muore e si combatte per i propri fratelli in armi. E il desiderio di giocarsela tutta.

"Saigon merda" inizia 'Apocalypse Now'. Ma quella merda veniva ricercata da chi partiva volontario per il Vietnam. Chi cercava il rischio della morte come modo per vedere sin dove arriva la possibilità umana. A Michael Herr non interessa raccontare una storia ben costruita e commentata, digeribile dall'informazione con la scusa del "faccio bene il mio mestiere, sono rigoroso, cerco la distanza da ciò che scrivo per essere oggettivo". C'è forse stato un momento in cui ha detto: chi se ne frega. Non mi interessa se sbaglio, se posso passare per colluso. Racconto come funziona, racconto il puzzo delle scarpe coi piedi marciti dentro, le vesciche alle mani per i fucili, le perversioni. O il sorriso di un ragazzino sulla barella, con mezza gamba squarciata da una scheggia di mortaio e le mani ustionate. Che non piange, né strilla "mamma". Ma ride. Ride perché sa che quella gamba tranciata, le sue ferite, quel sangue che vede uscire a fontana, significano "casa". Ritorno, famiglia, America. Non più zanzare, proiettili, foresta pluviale, febbre, facce di vietcong. I sogni che non sono più sogni e poi gli errori degli ufficiali, e la droga che diviene il farmaco alla stanchezza e al dolore, o il nervosismo indotto nei soldati troppo calmi e quindi troppo buoni. Herr riesce a fissare in volto l'orrido e la bellezza, il piacere di combattere, e la divisa che ti fa apparire alle ragazze a casa più duro e forte di come sei davvero.

A Herr non interessa ricostruire una storia segreta. Vuole raccontare quel che è sotto gli occhi di tutti e nessuno però riesce a descrivere. Il Vietnam grazie anche a Michael Herr è divenuta la guerra persa non per i proiettili o la guerriglia dei vietcong, ma soprattutto perché è stata raccontata. Raccontare quella guerra per come è stata davvero, significa distruggere ogni argomento che ha portato al conflitto, e tracciare dove l'uomo perde la possibilità di essere uomo e la vicinanza tra soldati diviene l'unica legge di sopravvivenza. Vietnam, Vietnam. In fondo ci siamo stati tutti.

(2008 Roberto Saviano Published by arrangement with Agenzia Letteraria Santachiara)

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Stati Uniti d'Europa - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 11 luglio, è disponibile in edicola e in app