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Cultura
dicembre, 2010

Arbore: "Molto meglio la macchietta"

Oggi imperano furbizia e battuta facile. Ieri vincevano l'allusione leggera e lo sberleffo. Per questo lo showman rilancia la tradizione napoletana. E qui dice: "Il linguaggio televisivo di oggi è pieno di parolacce. E non mi piace più"

La sciantosa Ninì Tirabusciò e Ciccio Formaggio, che "nun tene 'o curaggio nemmeno 'e parla'". E poi "Il canto malinconico", "La pansé", "Io, mammeta e tu". Dopo aver rilanciato la canzone napoletana classica portando in trionfo la sua Orchestra Italiana fin nei saloni della Carnegie Hall di New York, e dopo aver riscoperto lo swing ben prima di Michael Boublè, oggi Renzo Arbore si è messo in testa di divulgare la Macchietta e la canzone umoristica partenopea.

E insieme allo storico Carlo Missaglia, con cui si esibiva a Napoli nei night di fine anni Cinquanta, e con Vittorio Marsiglia, per lui il vero erede della comicità alla Nino Taranto, ha appena pubblicato "Come si ride a Napoli!" (B. C. Dalai editore), antologia delle canzoni più curiose e significative dell'immenso patrimonio umoristico partenopeo. Un libro spassoso soprattutto alla lettura dei testi che, corredati da illuminanti note, sono spesso piccoli film e sceneggiature.
Nell'appartamento romano dello showman pugliese in cui ogni singolo pezzo, dal cucù al frigorifero, è in technicolor e brilla, e canta il blues appena lo tocchi e se lo sfiori spara raggi accecanti, e dove è quindi impossibile essere depressi - tanto che più volte Vittorio Gassman aveva espresso il desiderio di prepararsi un lettuccio proprio là, nella stanza piumata delle Madonne canterine - abbiamo parlato con Arbore di come si ride a Napoli, e non solo.

Lei ha vissuto otto anni a Napoli in mezzo al sound degli americani, e poi ha razzolato nella musica di tutto il mondo, da quella messicana alla capoverdiana e cubana. Che bisogno c'era, adesso, di tornare a Renato Carosone?
"C'era il problema che quel patrimonio straordinario di frizzi e lazzi, allusioni e doppi sensi rischiava di essere dimenticato perfino dai napoletani. Per questo ho voluto registrare, a spese mie, il concerto di Marsiglia al Teatro Augusteo di Napoli, qualche anno fa, e pubblicarlo come Dvd insieme al libro. Purtroppo oggi mancano testimonianze di interpreti fondamentali nati prima dell'avvento del microsolco: il mio compito di vecchio artista è di fissare e conservare. Perché io ho un grandissimo rispetto per l'arte del sorriso, spesso sottovalutata e ritenuta cultura bassa. Sia la letteratura che i film umoristici sono considerati di serie B. Mentre è arte grandissima. Come ha dimostrato anche Massimo Troisi".

Ci dica, allora: quando nacquero la Macchietta e la canzone umoristica?
"In quel periodo di straordinaria effervescenza culturale che fu la Napoli della Bella Epoque. Accanto alle canzoni classiche, infatti, i grandi compositori partenopei si divertivano ad avere un elenco segreto di canzonette licenziose ad uso e consumo dei ricchi che frequentavano i Bar Tabarin e i Café Chantant. Tutti borghesi e titolati che andavano ad applaudire le sciantose e non spendevano certo i soldi per sentire "Mo' scetate" o "Era di maggio". Volevano motivi allegri e orecchiabili, invece, anche pezzi "proibiti". Queste canzoni sono un'esplosione di trovate e d'inventiva, ma anche di bricconeria e di quella cosa molto napoletana che è "la cazzimma", in cui c'è tutto, dal doppio senso malizioso alla furberia popolare. Non la furbizia antipatica oggi tanto in voga, ma quel bellissimo atteggiamento leggero e sospeso, che allude ma non dice mai la parola... Come quel verso di "Agata" (autori Pisano-Cioffi) che dice: "Mo mme faccio 'o sulitario. Guardo in cielo e penzo a te!", elegantissimo e sublime. Nella macchietta, nata come uno schizzo colorito per mettere alla berlina personaggi e situazioni, contava la mimica e l'assetto del corpo: lo strabuzzamento degli occhi, il sedere spinto in fuori e controbilanciato dal roteare del bastoncino, fino alla celeberrima "mossa"".

Dica la verità, Arbore, ce l'aveva anche lei, da giovane, un elenco di canzonette osè....
"È vero. Con un piccolo gruppo di amici -Roberto Murolo, il marchese Giulio Patrizi, Sergio Bruni e io - ci chiamavamo La nuova posteggia - frequentavamo le case dei ricchi. E in cambio di un piatto di ragù, a una certa ora, usciva la chitarra. Anch'io avevo un repertorio di canzoni scritte da me e mai pubblicate davvero irriferibili, come "La ballata del verme solitario". Ma piacevano moltissimo".
E poi ha continuato: ha fatto "Smorz 'e lights" e "Vecchia mutanda", con "l'elastichino blu che non tira più".
"Dovrei rivendicare che nell'86 ho portato al Festival di Sanremo "Il clarinetto", un trionfo di doppi sensi. E mi piace ricordare, scritta in napoletano, "Dino de Laurentiis", che a lui divertiva moltissimo. Poi è nato il Festival di Sanscemo, sono arrivati gli Skiantos e gli Squallor, un gruppo di cinque amici miei, tutti discografici, che volevano abbattere i tabù cantando l'incantabile, e che hanno a tutt'oggi molti fans. Fino a Elio e le Storie Tese, i più grandi. Ma la canzone umoristica non è più quella di una volta: ieri era uno sberleffo, uno sfottò gratuito senza significati reconditi, il sorriso per il sorriso. Oggi il cantante che vuol fare un pezzo umoristico ci mette dentro la satira dei tempi, l'attualità, la politica".

Lei invece ha dichiarato che si diverte solo con le cose antiche. Dalla sua linea di arredamento vintage a "Quelli della notte", sembra sempre ripiegato all'indietro, sul passato. Perché?
"Certamente io non ho mai fatto la satira del contingente, con l'imitazione di Massimo D'Alema o del politico di turno. Ho fatto la satira pura: quella della tv a "Indietro tutta", ad esempio, con le ragazze Coccodè, la ruotona della fortunona e l'auditel che si impennava a certe inquadrature. Invece della tv usa e getta, oggi lo posso confessare, ho sempre scientemente voluto fare cose che rimanessero nell'archivio Rai. Già da "Alto gradimento", alla radio, nel 1970: il professor Aristogitone alle prese con gli studenti contestatori o il "nostalgico" Catenacci sono cialtroni e tromboni attualissimi anche oggi. Non è l'antico: è il classico moderno. E adesso anche la Rai ha scoperto che il mio archivio è più ricco e più potente di quello di altri colleghi, perché tutto è ripetibile e riproponibile. E lo ritrasmette in continuazione".

La forza del repertorio, insomma. Il suo: lo programma Rai5, ogni giovedì sera, con "A lunga durata" e "D.O.C". Mentre Rai International manda in onda "Oggi qui, domani là", 40 puntate di scorribande arboriane in tutto il mondo. Non ha paura di inflazionarsi?
"Al contrario, sono contento. So che la mia popolarità, specie tra i giovani, si fonda su quello che vedono in tv. L'accendono, si divertono e ridono. E ancora mi chiedono l'autografo."

Ma in tv oggi, come lei ha sostenuto, "invece del non detto del doppio senso, trionfa il detto del senso unico". Ossia?
"Il linguaggio di tutte le trasmissioni è diventato diretto, disinvolto e pieno di parolacce. Non mi piace. Io sostengo invece che, per far ridere, è molto più efficace il non detto: perché il pubblico, se tu accenni solo, aguzza l'ingegno e si sente complice. È la mia regola fin da "Alto gradimento": con Gianni Boncompagni ci eravamo imposti di non dire certe cose ma alludere, esitare. E non certo per autocensura: ci eravamo accorti che dire "Ho visto fanfà, fanfà, fanfà... una fanfara" faceva molto più ridere che non tirar fuori lo scontatissimo Fanfani".

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