Il grande fotografo Gianni Berengo Gardin, ritrasse la città nel '95. Ci è tornato  per confrontare gli stessi luoghi dopo il terremoto

L'Aquila prima e dopo: il libro

Nel 1995 uno dei più importanti fotografi italiani, Gianni Berengo Gardin, si reca a L'Aquila per ritrarre la città, gli abitanti, le botteghe, gli spazi pubblici. Non prevede certo quello che accadrà nell'aprile del 2009: il terremoto, la desolazione, l'abbandono delle strade e dei palazzi, il disastro dello sradicamento umano. Fotografa una città antica; lo fa con uno sguardo illuminato, teso a ritrovare in questo luogo l'impronta dell'Italia del passato, che non c'è più, scomparsa sotto lo sfregio delle speculazioni edilizie e delle distruzioni urbanistiche. Quando ci ritorna dopo il terremoto, Berengo Gardin ripassa nei medesimi luoghi di sedici anni prima. Troppo forte la volontà di vedere e confrontare. Quindi realizza con queste due visioni un libro in cui le immagini si accostano, si sovrappongono, si scontrano: "L'Aquila prima e dopo" (Contrasto, pp. 146, E 29). L'impressione è quella di un sogno, prima ancora che di un incubo. Da un lato, gli scatti di Berengo Gardin ritraggono una città che sembra rimasta ferma per secoli; il suo obiettivo l'ha colta vuota, deserta; ha scartato le brutture della modernità devastante: una città come si ricorda in sogno.

Poi c'è l'altra città, che è la medesima; anch'essa vuota, desolata, piena di macerie. Sembra che la seconda città, quella attuale, dopo il sisma devastante che l'ha ridotta a città fantasma, sia la vera città che sogna se stessa nel futuro, non nel passato. Le macerie di questa stupenda città descritta dalle inquadrature classiche, intemporali di Berengo Gardin, sembrano la realtà che verrà, mentre l'Aquila post-sisma corrispondesse realisticamente all'Italia di oggi: un paesaggio dopo la battaglia. Giampiero Duronio, osservando le istantanee scrive nella presentazione che la città non è stata né protetta né difesa dai suoi abitanti: non dobbiamo ricostruirla, dobbiamo riconquistarla, aggiunge, come in un amore adolescenziale. Un grido disperato.

Nelle ultime pagine del volume appaiono i prefabbricati, le baracche, gli alloggiamenti, gli abitanti deportati altrove. La dura realtà, mostrata senza rabbia e senza moralismo, sembra viva, vera, fortissima. Un bel libro che non è un reportage, bensì un viaggio nella memoria del presente.

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