Molti, non tutti, l’hanno lasciato sui campi di calcio, difensore centrale o terzino destro. Comunque un campione. Parma e Juve, il Barcellona, la nazionale francese con cui ha vinto europei e mondiali battendo il record di presenze di ogni tempo.
Lilian Thuram l’ha fermato un cuore matto quando per fortuna, sui campi, aveva già dato il meglio di sé: era il 2008 ed aveva 36 anni. Niente più scorribande sulla fascia, però l’inizio di un’altra storia. Come si sarebbe potuto sospettare da tempo se dalle pagine sportive ci si fosse spostati su quelle politiche dove la sua voce era comparsa fin dal 1998 per polemizzare con Jean-Marie Le Pen e Nicolas Sarkozy a causa di alcune uscite discriminatorie verso neri e ragazzi di banlieue, o per sostenere le ragioni dell’indipendentismo catalano.
Perché Lilian aveva un progetto: «Voglio cambiare il mondo», come rispose a chi gli chiese cosa avrebbe fatto dopo la carriera sportiva (lo ricorda nel suo libro “Per l’uguaglianza”, add editore, 224 pagine, 16 euro). “Vaste programme”, avrebbe commentato il generale de Gaulle.
Thuram forse il mondo non riuscirà a cambiarlo, però ci prova. Intanto con una Fondazione che ha il suo nome e lo slogan “Tous parents, tous différents” (tutti parenti, tutti differenti) per la quale gira il mondo come una trottola avendo un unico bersaglio da colpire: non una porta avversaria, ma il razzismo.
Per vincere il quale c’è bisogno di fuoriclasse. L’ex terzino ne ha parlato dal palco del festival di Pistoia la sera del 22 maggio in un incontro dal titolo “Co-abitare: contro tutti i razzismi”. Dove ha spiegato il senso delle sue iniziative ma soprattutto la filosofia che lo muove. E che parte, come spiega a “l’Espresso”, dal ribaltamento di una frase che gli ripeteva sua madre Marianne nel paese di Anse-Bertrand, Guadalupa, dove è cresciuto prima di trasferirsi in Francia. Diceva dunque mamma: “Le persone sono razziste, è così e non cambierà”. «Ma io sono convinto del contrario e anche lei ora lo è». Tanto ottimismo gli deriva dall’ascolto che riesce a ricevere: «E so bene che dipende dalla mia popolarità come atleta. Sfrutto questa circostanza favorevole per diffondere le mie idee. Funziona, in particolare con i ragazzi».
Le scuole sono luoghi che frequenta volentieri, perché «gli immaginari si cambiano partendo dalle nuove generazioni». Quando entra in una classe, rivela, di solito fa un test: «Chiedo agli alunni chi ha scoperto l’America. Mi rispondono: Colombo. E io ribatto che c’era già qualcuno che ci viveva, in America, prima che lui ci arrivasse. E che sarebbe come sostenere che siccome sono entrato in quella classe sono io che l’ho scoperta». Un modo per dimostrare come bisogna diffidare della cultura dominante, solitamente eurocentrica, che porta a definire il mondo secondo la visione dei bianchi.
Appartiene, Thuram, a quella schiera di persone convinte delle magnifiche sorti e progressive della storia, una locomotiva che procede diritta verso il meglio: «Però per ottenere risultati bisogna continuare a lottare». Come per vincere sul rettangolo di gioco. Partendo dai diritti: «Perché è il riconoscimento legislativo della parità che ci tutela, che dà la consapevolezza e la volontà di ribellarsi a un sopruso». Eppure, se ci si guarda attorno, capita di dover considerare che si fanno spesso passi indietro.
Nella stessa Francia dei diritti sembra tramontare l’integrazione di modello assimilazionista. «Non è affatto così», si ribella. «In un momento di grande crisi economica come questo, non solo la Francia ma tutta l’Europa, sembra funzionare secondo uno schema per il quale chi è bianco pretenderebbe di “passare prima” in virtù di un principio di purezza di razza. In realtà questo succede perché si amplificano i messaggi del Front National per i quali le cose vanno male. A forza di ripeterli, si finisce per accettare che sia così. Poi arriva una manifestazione come quella dopo gli attentati a Charlie Hebdo e finalmente emerge che la maggioranza è per la convivenza».
Thuram rilegge l’ultimo secolo per concludere: «C’è meno razzismo oggi rispetto al passato». Ed esemplifica: «Quando è nata mia madre, nel 1947, c’era la segregazione in America. Nelle colonie francesi le persone non erano tutte uguali. C’era l’apartheid in Sudafrica che è terminato solo negli Anni Novanta». E all’obiezione per cui nella contemporaneità ci sono continue stragi nel Mediterraneo frutto di una diffusa xenofobia risponde: «Molte persone hanno fatto naufragio e sono morte in mare nel tragitto degli schiavi tra l’Africa e la mia Guadalupa. Ed erano gli Stati a gestire il traffico di esseri umani. Cosa oggi impensabile. Lo fanno gli scafisti, non i rappresentanti delle istituzioni. No, non è peggio di prima».
Nel 2010 Lilian aveva scritto un altro libro “Le mie stelle nere da Lucy a Barack Obama”. Spontaneo chiedergli se il presidente degli Usa è per lui ancora una stella o se è rimasto deluso dalla sua politica, nonostante un nero alla Casa Bianca i ghetti sono infatti in ebollizione: «Obama non mi ha deluso perché ciò che conta non è tanto quello che ha fatto quanto quello che ha simboleggiato la sua elezione e non si cancella».
Impossibile, con lui, non chiudere col calcio: «Quando sono arrivato in Italia sentivo i cori “terroni, terroni” e ho provato a capire perché di questo astio. Deriva, credo, da un immaginario secolare che pone il Sud in inferiorità e va cambiato».Su Bercellona e Juve, due sue squadre, finaliste in coppa Campioni, non si schiera: «Non voglio scegliere, ma è bello rivedere la Juve ad alti livelli». APistoia, sul tema, sicuro insisteranno.
Cultura
1 giugno, 2015È stato un grande campione. Ora, terminata la carriera, mette la popolarità al servizio della causa dell’uguaglianza. Convinto com’è che sia possibile “cambiare il mondo"
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