Più di metà dei prodotti cosmetici usati nel mondo nasce in un triangolo d’oro di 500 aziende tra Milano, Bergamo e Crema. Viaggio in un’eccellenza nascosta, con fatturati miliardari e in continua crescita (Foto di Andrea Frazzetta per l’Espresso)

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Vaniglia e cera, talco e caramello, latte e mentolo. Una fabbrica di trucchi è un assalto all’olfatto. Profumo di rossetto a tratti sommerso da ondate di cipria. Le betoniere roteano piene di morbide sfere in terra e perla: ruzzolano e crescono per diventare palline di fondotinta dal cuore di gel antirughe.

Alla linea di montaggio le donne stendono su un dischetto di plastica una noce di crema lilla che, cotta nel forno, diventerà fard. Nel frattempo sembrano bignè. In una gabbia tutta tubi, acciaio e bracci elettronici spicca l’amaranto di un rossetto pronto per essere incappucciato a mano.

Nell’altro reparto un uomo pesa le polveri per creare l’ombretto: la divisa, un tempo bianca, è uniformemente rosa. Lavora fra centinaia di sacchi e barattoli di terre colorate, pigmenti, perle e leganti, in una delle 500 aziende del distretto della cosmetica che sorge fra Crema, Bergamo e Milano. Qui vengono ideati e prodotti oltre il 60 per cento dei trucchi utilizzati dalle donne di tutto il mondo. Un rimmel non è cosa effimera per l’industria italiana.

[[ge:rep-locali:espresso:285162162]]Secondo Cosmetica Italia, la Confindustria del beauty, quest’anno il valore della produzione supererà i 9,6 miliardi di euro; dà lavoro a 35 mila persone (54 per cento donne, 11 per cento con laurea) e cresce del 10 per cento l’anno, macina utili anche in tempi di crisi, vende fuori dai confini nazionali il 70 per cento di ciò che realizza.

Quest’anno l’export aumenterà di un altro 8 per cento, grazie al boom di richieste di Stati Uniti ed Emirati Arabi. Con l’indotto - fatto di aziende chimiche che forniscono ingredienti base, imprese che realizzano macchinari e packaging - il giro d’affari sale a 14 miliardi e i dipendenti sono 200 mila. Da sola l’industria italiana riesce a far girare 144 miliardi di euro considerando il markup, cioè il ricarico, delle case di cosmesi, dei rivenditori e delle profumerie.

Eppure è un’eccellenza silenziosa. «I numeri nessuno li può contestare, ma le griffe francesi, americane e giapponesi non tengono a far sapere che i loro prodotti sono fatti qui, lontano dalle loro sedi», dice Gian Andrea Positano, capo del centro studi di Cosmetica Italia. «Dior, Chanel, Estée Lauder, Lancôme, Bobbi Brown, Elizabeth Arden, Sephora, Pupa, Helena Rubinstein, Shiseido: tutti i brand, dai più grandi ai piccoli, dalla Russia all’Australia, affidano la produzione di trucchi, creme e smalti alle imprese italiane», conferma Positano, che racconta come queste aziende si occupino non solo del confezionamento, ma anche di progettare nuove collezioni e ideare soluzioni innovative.

«Le grandi case cosmetiche hanno smesso di fare ricerca attiva nel beauty perché non hanno più la forza finanziaria di rischiare. Lasciano alle nostre aziende il compito di innovare e formulare proposte per il futuro», spiega Romualdo Priore, direttore marketing di Chromavis, 810 dipendenti e 135 milioni di fatturato, azienda della provincia cremasca recentemente acquisita dalla multinazionale francese Fareva, colosso da 1,5 miliardi di giro d’affari che ha posto a Crema il quartier generale della cosmetica di tutto il gruppo.

Compito di Priore, intuire cosa vuole il mercato: «I trucchi saranno sempre meno tecnici e più giocosi, il fondotinta per esempio somiglierà a un dolce sciroppo: le persone hanno voglia di divertirsi, distrarsi da crisi e problemi, però vogliono sicurezza dal prodotto. Quali direzioni prenderà il mercato lo scopriamo girando per il mondo, confrontandoci con i più famosi make up artist, parlando con le grandi case di cosmetica per cui lavoriamo e osservando cosa succede nella moda».

Sono i chimici farmaceutici di questi laboratori a creare nuove formulazioni, spalla a spalla con i creativi, intenti a pensare ai colori di tendenza. Qui si ragiona persino sulla forma dell’applicatore - goccia, monouso o cuscinetto? - e sulle campagne pubblicitarie da proporre. Insomma, se quest’anno a New York va di moda il gloss lucido è perché qualcuno a Crema ha deciso così.

Prodotti leader? Mascara e liquid lipstick, poi il fondotinta che da solo vale 214 milioni di euro per il made in Italy, segmento sempre in crescita grazie al successo delle “CC cream”, le creme di origine coreana che colorano e migliorano l’incarnato. «È un business formidabile. Ha grandissima forza produttiva ed esporta più dell’occhialeria italiana», racconta Gabriella Lojacono, docente di economia aziendale all’Università Bocconi di Milano, che nel 2014 ha scritto il libro “Italian beauty”.

Leonard Lauder, ottantaduenne presidente emerito del colosso del lusso Estée Lauder, nel secondo dopoguerra ideò il “Lipstick Index”, secondo cui i consumi di beauty tendono a crescere nei periodi di crisi: «Tesi ancora attuale: le donne cercano gratificazione nell’acquisto di prodotti belli, ma non potendo spendere troppo in abiti si tolgono lo sfizio acquistando rossetti o smalti.

Ecco perché molte case di moda investono nel beauty, che ha anche il vantaggio di garantire margini di guadagno molto più elevati della moda», continua l’economista: «Le manifatture del beauty sono in assoluto le più resilienti: nei momenti critici resistono meglio alle difficoltà dei mercati».

Cultura del bello, creatività e normativa più rigorosa al mondo a regolamentare la produzione (paragonabile solo a quella dell’industria farmaceutica) non bastano a spiegare perché l’industria del beauty sia soprattutto italiana.

Per capire la vera ragione di questo primato è necessario parlare di Dario Ferrari, 72 anni, milanese, fondatore di Intercos, la più grande multinazionale del beauty nel mondo, testa a Monza e impianti a Dovere (Crema). Intercos fattura 420 milioni e in media ne spende il 10 per cento l’anno in ricerca e innovazione.

La società ha 12 stabilimenti e 8 centri di ricerca, tra Italia, Cina, Brasile, Stati Uniti e Corea del Sud. «Nel mondo siamo la società che impiega più energie nel make up», conferma Ferrari, che lavora per oltre 300 gruppi della cosmetica. «Il 73,5 per cento di questo mercato è controllato da 30 grandi società e noi lavoriamo per 26 di queste. Non forniamo solo il prodotto, ma l’intero servizio, dall’innovazione alle campagne».

Lui eredita la passione per la bellezza dalla madre, chimica che amministra una società svizzera di creme per il viso. Nel 1972, in un sottoscala di Milano, comincia a produrre rossetti per venderli ai francesi; negli Ottanta sigla una joint venture con Estée Lauder, il che gli apre le porte di qualsiasi società del make up. «Il punto di forza è saper gestire le complessità. Ogni prodotto richiede una tecnologia su misura, materie prime differenti, innovazioni e impianti specifici», racconta l’imprenditore.

Negli anni Intercos è stata la nave scuola di tutte le altre società, da Chromavis alla bergamasca B.Kolor, specializzata in prodotti naturali ed ecologici. Tutte realtà create grazie al know how di ex dipendenti di Intercos pronti a seguire l’arte del maestro. Lo stesso re del mascara Renato Ancorotti, 59 anni, ha parole di grande stima per il guru Ferrari.

La Ancorotti Cosmetics è nata nel 2008, inizio crisi, ma cresce ogni anno del 30 per cento e chiuderà il 2015 a 40 milioni di fatturato; ha 130 dipendenti e 9 stabilimenti, ma entro l’anno ne saranno inaugurati altri due per allargare il business alle polveri di ombretti e fard. Produce 800 mila chili di rimmel -100 milioni di pezzi l’anno- e ne esporta il 77 per cento: «È il prodotto più venduto nel mondo, se ne fa un miliardo di pezzi l’anno. E noi ne controlliamo un decimo», spiega l’imprenditore, secondo cui questo è il prodotto più complesso da realizzare. «Perché le asiatiche hanno ciglia corte e le sognano lunghe e folte, le europee vorrebbero l’effetto “curling”, di arricciatura, senza perdere tempo allo specchio...». L’eccellenza nascosta dell’Italian beauty darà a ciascuna donna il suo.

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