Sulla copertina dell’album c’è solo una stella nera. Perfino il sole che illumina il misterioso corpo celeste cui si riferiscono le prime immagini di “Blackstar” è oscurato da un’eclisse. Spentosi a 69 anni dopo una lunga malattia, David Bowie è stato fino all'ultimo un artista sorprendente, capace di esplorare nuovi territori musicali evocando da par suo le nostre paure più profonde.
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Il videoclip (durata 9 minuti e 99 secondi) sembra riferirsi al lato oscuro della religione. Qualcuno ha ipotizzato che sia ispirato all’ascesa dell’Isis e di al-Baghdadi, anche se lui ha sempre negato. Difficile districarsi nella selva di simboli che Bowie ha messo in campo. Certo è che quella di “Blackstar” è musica di un altro pianeta rispetto a quanto circola oggi sull’autostrada del pop.
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La sua voce appare in quest'ultimo lavoro più bella e più espressiva di sempre. Tra i sette brani circola la stessa tensione sperimentale della trilogia berlinese, con una differenza sostanziale: qui Bowie ha voluto musicisti jazz per suonare il rock. E questo, a detta del suo produttore, Tony Visconti, vuol dire capovolgere tutto.
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Un assaggio si era avuto già nel 2014 con il singolo “Sue (or In A Season of Crime”), brano ai confini tra free jazz e drum’n’ bass, che ha dato vita al sodalizio con il sassofonista Danny McCaslin e la Maria Schneider Orchestra, la stessa compagine che ha suonato in questo album.
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Il lato B era “Tis A Pity She Was A Whore”, che ritroviamo ora in versione rimaneggiata dal magnifico quartetto di McCaslin. “Lazarus” è invece un brano tratto dall’omonima pièce teatrale ispirata a “L’uomo che cadde sulla Terra”.
Tanto per ricordarci, fino all'ultimo, le sue origini marziane.