Nell’agosto del 2015, a Bengasi, la vita si è interrotta. La città è devastata dagli scontri tra le forze del generale Khalifa Haftar e i gruppi islamisti. Le scuole sono chiuse, i campionati di calcio fermi. Jomaa Laamami Tarek, Abdelkarim Alla F. Hamad (Alaa Faraj) e Abd Al Monssif Abd Arahman non hanno neanche vent’anni, vogliono solo studiare e giocare a pallone e nel loro Paese non possono più. Cercano in tutti i modi di ottenere un visto per l’Europa ma in guerra civile è impossibile. E a vent’anni non si può aspettare.
Così seguono l’esempio di Rami, un amico, anche lui calciatore. Si è imbarcato e gli è andata bene: è arrivato in Italia e poi in Germania. A Tripoli vengono a sapere della possibilità di partire da Sabratha con mille dinari. Si fanno prestare i soldi dalla famiglia e salgono su una barca di tredici metri di colore azzurro. In Germania non ci arriveranno mai.
Oggi sono ancora dietro le sbarre, in un carcere italiano, con dieci anni di gioventù andati via e altri venti da scontare. Quel barchino azzurro finirà su tutti i telegiornali e arriverà perfino sul grande schermo. È la strage di Ferragosto, raccontata nel film Fuocoammare. Nella stiva sono morti asfissiati 49 migranti. Altri 313 sono sopravvissuti e otto persone sono state arrestate e condannate per omicidio plurimo e traffico di esseri umani. Tra questi, il marocchino Beddat Isham, il siriano Jarkess Mohannad, il libico Assayd Moahmed, il tunisino Couchane Moahmed Ali, il marocchino Saaid Mustaphaci e i tre ragazzi di Bengasi.
A difendere uno di loro, Alaa Faraj, è l’avvocata Cinzia Pecoraro. Da anni si occupa dei processi ai cosiddetti “scafisti” e da subito ha capito che qualcosa non tornava. «Le accuse si basano su testimonianze raccolte a poche ore dallo sbarco, da persone ancora sotto shock», racconta. «Una di loro non ha riconosciuto il marito né il fratello tra i morti, ma ha indicato con certezza alcuni dei presunti scafisti guardando foto sgranate in bianco e nero». Nessuna delle persone ascoltate all’inizio del processo è mai più stata interrogata. «Abbiamo scoperto che alcuni di quei testimoni sono stati sentiti con interpreti sbagliati, o non sono mai stati messi davvero nelle condizioni di riconoscere qualcuno. C’è chi ha detto di aver visto chiaramente i volti grazie alla luna piena, ma quella notte, il 15 agosto 2015, c’era luna nuova. Non si vedeva niente».
Le prove raccolte dalla difesa sono numerose: i racconti dei testimoni, il rapporto Frontex, i verbali delle prime deposizioni, alcuni con errori grammaticali identici, come se fossero stati copiati e incollati. Nonostante questo, la Corte d’Appello di Messina ha ritenuto i nuovi elementi «non sufficienti» a riaprire il processo e, lo scorso 12 giugno, la Cassazione ha rigettato il ricorso. «È stata una delusione. Le prove sono nuove, rilevanti, e possono distruggere il giudicato. Non accoglierle è una violazione del diritto di difesa», spiega Pecoraro.
Insieme ad altri legali, è riuscita a rintracciare due testimoni che erano a bordo della barca e oggi vivono in Germania. «Hanno raccontato che non c’era alcun equipaggio: solo un uomo al timone e poi centinaia di passeggeri stipati all’inverosimile». Su queste navi, la divisione dei posti avviene su base razziale. «Subsahariani e bengalesi, spesso i più poveri, vengono messi in stiva, nei punti meno visibili e meno sicuri. I nordafricani finiscono in coperta. Questo li rende più esposti, più identificabili, e spesso scambiati per membri dell’equipaggio». Lo spiega Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group ed esperta di Libia, che da anni segue il caso a titolo personale. «Non è raro che anche chi guida il barcone sia costretto a farlo sotto minaccia».
Al timone di quella barca c’era Couchane Moahmed Ali, tunisino, condannato a vent’anni con rito abbreviato. «Ho ricevuto una sua lettera», racconta Gazzini, «si sono ritrovati nello stesso carcere e Alaa e gli altri gli hanno chiesto di dare la sua versione dei fatti». Non era la sua prima traversata. L’aveva fatta per raccogliere i soldi per curare sua madre malata di cancro. «Gli era stato detto: “Vai in Libia, fai il timoniere, e poi ti paghiamo le cure”. Ma quando ha chiesto di essere pagato, lo hanno costretto a fare un secondo viaggio, al termine del quale è stato arrestato. Nessuno ha mai pagato e sua madre è morta mentre lui era in carcere». È ancora detenuto, come gli altri. Nella lettera scrive: «Giuro che quei ragazzi sono brave persone, non c’entrano niente. Erano solo passeggeri».
Nella ricostruzione giudiziaria non si tiene conto del fatto che Alaa e i suoi amici non avevano né potere né strumenti per esercitare alcuna autorità a bordo. «Alaa durante tutto il viaggio ha vomitato per il mal di mare. Non sapeva che ci fossero persone stipate nella stiva. Ci sono almeno dieci passeggeri che confermerebbero la versione dei ragazzi», dice l’avvocata Pecoraro, «ma non possono venire in Italia. Solo due avevano documenti validi e hanno potuto testimoniare. È frustrante perché la verità c’è, ma non può essere portata in tribunale».
La più grande fragilità dell’indagine è, secondo la difesa, che si è partiti con l’idea pregiudiziale di trovare dei responsabili: «È un’impostazione fallace, i trafficanti veri hanno smesso di salire a bordo, non rischiano la vita. Usano i passeggeri che non possono pagare il biglietto o che vengono minacciati». A confermarlo è la stessa Corte d’Appello di Messina, secondo cui i ragazzi sono «l’ultima ruota di un mostruoso ingranaggio» e «moralmente non imputabili». «È surreale», commenta Pecoraro, «hanno inventato una nuova figura giuridica: l’innocenza morale».
E se dal punto di vista legale ha poca rilevanza, la moralità, per Alaa Faraj, è l’inizio di una rinascita personale. «Lo conosco da febbraio 2023», racconta Alessandra Sciurba, docente di filosofia del diritto all’Università di Palermo, «e da subito sono rimasta colpita dalla sua voglia incredibile di vivere, studiare, resistere». Non ha mai accettato scorciatoie, neanche quando le autorità di Bengasi hanno proposto uno scambio di prigionieri. «Voleva dimostrare la sua innocenza, non uscire dal carcere per interessi politici». Dal loro incontro è nata una corrispondenza, uscirà a breve per Sellerio. L’ultima lettera del libro, scritta da Alaa dopo la decisione della Corte d’appello, è la più amara: «Non c'è stata giustizia, né per me né per le 49 vittime. Preferivo morire con loro: meglio una morte naturale che questa morte lenta della mia giovinezza. Ma se un giorno riuscirò a vincere con la verità questa battaglia, sarà anche per loro. E forse mi passerà questa terribile sensazione di impotenza».