Storie quotidiane, commedie, musical, drammi umani e politici. Ecco come si racconta la nuova filmografia del Medio Oriente, lontano dai luoghi comuni sull'Islam

Giovani registi arabi, una generazione contro Is e pregiudizi

In un momento in cui arabi e musulmani sono troppo spesso identificati con il terrorismo e la migrazione incontrollata, che secondo alcuni metterebbe in pericolo sicurezza, economia identità religiosa dell'Occidente, una mano tesa arriva dal cinema di quegli stessi Paesi, che vogliono farsi conoscere, con i loro problemi e i loro sogni, al di là degli stereotipi influenzati dalla cronaca e cavalcati dai politici. E sono pronti a farlo con un grido di libertà affidato alle giovani generazioni, in due film in arrivo nei nostri cinema rispettivamente a metà e fine aprile: in "The Idol" il regista Hany Abu-Assad racconta la storia vera di Mohammad Assaf, cresciuto a Gaza in estrema povertà sognando di fare il cantante e divenuto una star planetaria grazie al talent televisivo Arab Idol; in "Appena apro gli occhi" Leyla Bouzid descrive lo scontro con l'amara realtà di Farah, 18enne tunisina costretta a rinunciare all'impegno politico espresso nelle sue ballate di contestazione, nell'estate che porterà alla Rivoluzione dei Gelsomini.
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“Molti documentari sono stati girati nel mio Paese su quel movimento”, racconta all'Espresso Leyla Bouzid, fresca vincitrice del festival di Dubai “ma io non volevo filmare la rivoluzione, semmai mostrare la quotidianità soffocante, piena di paure e paranoia cui il popolo tunisino è stato sottoposto per 23 anni”. Mentre il  film della Bouzid sceglie un taglio crudo che getta un’ombra sul processo di libertà, nonostante quella rivoluzione abbia causato la destituzione di Ben Ali ed elezioni democratiche in Tunisia, Abu-Assad sembra privilegiare una visione più rosea della realtà, lontana anni luce dall’epopea dei terroristi pronti a farsi saltare in aria nel suo celebrato Paradise Now; tanto che questo suo nuovo film è stato paragonato al premio Oscar "The Millionaire", del 2008.
"Appena apro gli occhi"

“Noi arabi stiamo vivendo il nostro medioevo”, spiega Abu-Assad, “con i politici che ci dividono e ci mandano a morire, e come artista è mia responsabilità dare conforto: ho scelto Mohammad Assaf perché ha letteralmente dato voce al proprio Paese, diventando un simbolo di speranza per un intero popolo. Voi europei potete permettervi di essere pessimisti, perché da voi la vita non è aspra, ma se vivi in Palestina l'unico modo di sopravvivere è coltivare l'ottimismo”.

Entrambe le pellicole sono la punta dell’iceberg di un movimento molto ricco che rimane sommerso perché sovente non varca i confini nazionali, ma che al festival di Dubai abbiamo potuto esplorare per individuarne temi ed autori. Un cinema che parla di generazioni in fuga dalla guerra, difficoltà a farsi accettare nel nuovo mondo, che cerca persino di ridere delle disgrazie di questi popoli e ha in serbo qualche sorpresa: ad esempio vi si trovano molte più registe di quante ve ne siano in quello occidentale. “Forse perché da noi il regista non è considerato un lavoro serio, quindi le famiglie lasciano alle femmine questo passatempo”, scherza la libanese Jihane Chouaib, regista dell'autobiografico Go Home: Nada torna nella natia Beirut dalla Francia per scoprire la verità sulla scomparsa del nonno, ma trova l'opposizione di chi non vuole che scoperchi il doloroso passato della guerra civile. Non pare un caso che l’attrice protagonista sia Golshifteh Farahani, star del cinema iraniano che per una fugace topless in un video di promozione dei premi César è stata condannata all’esilio.

“Nel mio film nessun uomo vuole parlare con Nada, perché tutti la considerano inferiore. C’è molto da fare riguardo la condizione delle donne anche in Libano”, ricorda Chouaib “perché anche se non sembrano oppresse, esiste l’enorme problema delle violenze domestiche, con un potere quasi illimitato dei mariti sulle mogli”.

Ecco perché molte scappano in Europa, come Chouaib e Farahani che a Parigi hanno cercato la libertà di espressione e, come spiega la regista, “finanziamenti per il cinema che nel mio Paese sono scarsi”. Proprio nella capitale francese si svolge anche "Peur de Rien", in cui Danielle Arbid mette in scena “la storia di una ragazza che scopre il mondo occidentale a 20 anni, proprio come è accaduto a me”: Lina arriva a Parigi dal Libano per studiare, ma dopo che lo zio la molesta, cerca un tetto  arrangiandosi come può, in un percorso che mostra come da entrambi i lati della barricata, immigrati e cittadini, ci siano tentativi di sfruttamento reciproco. E come le storie dei sans papiers rimangano un problema solo burocratico finché non si mette a fuoco la vite delle persone. “La vicenda di Lina è esemplare perché lei desidera abbracciare la Francia, la sua cultura, il suo stile di vita”, spiega Arbid. “Chi migra in genere, come accade oggi ai siriani, rischia la vita perché sogna un futuro migliore e spesso ama il Paese dove vuole andare molto più di chi ha diritto di viverci”.

Chi tenta di ironizzare sull’amara condizione di chi vive in Medio Oriente e cerca di fuggire da una vita grama è Muayad Alayan con "Amore, furti e altri guai", nei nostri cinema da qualche settimana e presto in Dvd: Mousa, ladro d'auto pasticcione che vuole lasciare la Palestina per l’Italia con la donna che ama, ruba per sbaglio un’auto in cui c’è un soldato israeliano rapito dalla milizia per un importante scambio di prigionieri. Capirà che anche il nemico è vittima di circostanze che lo tengono incatenato a quella regione piena di assurdi conflitti. “Come molti teen-ager cresciuti durante la seconda Intifada, ho scoperto il cinema come strumento per dare voce ai problemi dei Palestinesi”, spiega Alayan, “e Mousa esprime la frustrazione e depressione di una generazione in attesa di un cambiamento promesso da sempre ma che non arriva mai. La speranza è la droga che alimenta il mondo arabo e dimostra il fallimento della politica”.

Vira in commedia anche il curdo iracheno Halkawt Mustafa, ma sceglie una storia fantastica: in "El Clasico" racconta la storia di due fratelli curdi, affetti da nanismo, che intraprendono un rocambolesco viaggio per andare in Spagna a vedere Real Madrid-Barcellona e consegnare all'idolo Ronaldo un paio di scarpe da calcio fatte a mano.

“La maggior parte del cinema che viene dal Medio Oriente parla di politica e io volevo raccontare una vicenda umana”, spiega Mustafa “così ho scelto una storia di eroismo di queste persone sfortunate che in Kurdistan subiscono non solo i pregiudizi ma anche l’abbandono delle istituzioni. L’idea del clasico mi è venuta perché il calcio per molte persone in quella regione è l’unico sogno possibile. Dopo l’invasione dell'Iraq nel 2003 ci sono state talmente tante guerre che ormai la gente ha paura del futuro e ora persino la produzione di film locali si è arrestata con l’avvento dell’ISIS”.

Lo stesso Mustafa è stato costretto a rifugiarsi in Norvegia a 16 anni con la famiglia durante la guerra in Iraq e anche se oggi dice di essere interessato alle storie di tutto il mondo, è da poco tornato a girare per la tv il documentario The Women ISIS Fears, sulle donne curde che combattono nel nord della Siria contro le milizie di al-Baghdadi.

Nonostante molti registi tentino di affrancarsi dalla realtà che li circonda, alla fine molti si sentono obbligati a raccontare le storie del proprio Paese, come Salem Brahimi, nato a Londra ma cresciuto ad Algeri: Maintenant ils peuvent venir racconta di un impiegato statale che, alla fine degli Anni '80, decide di non seguire la fidanzata in Francia e rimanere in Algeria su cui incombe l’ombra della guerra civile. Dopo il matrimonio con un’amica d'infanzia, la sua vita sarà sconvolta dall’applicazione della Sharia e dagli atti di violenza sempre più efferati compiuti sui civili dagli islamisti.

“Dovevo raccontare quel decennio oscuro, che gli algerini fanno finta di non ricordare per cercare di capire come sia stato possibile costruire una società in cui un uomo decide di decapitare un bambino e crede di essere nel giusto. I fatti di ieri hanno un legame con quelli di oggi. A nessuno è mai interessato dei 200mila morti a causa del terrorismo nel mio Paese e molti pensano che quel processo, ignorato dall'Occidente, abbia ora raggiunto altre parti del mondo: ha sempre la stessa radice e cambia solo marchio, prima Al Qaeda, ora ISIS e domani chissà”.

La religione, secondo Brahimi, è solo una scusa che serve a fomentare l'odio tra civiltà: “Qualcuno ha deciso di usare l'Islam per costruire questa macchina dell'orrore molto efficiente, ma è un errore considerare che questa sia l’unica faccia del mondo arabo”.

“È un pericolo identificare arabi e musulmani come terroristi e se ciò accade in Europa è perché l’Is sta usando bene la sua strategia di marketing”, aggiunge Leyla Bouzid “dato che le prime vittime dei terroristi sono proprio i musulmani. Il cinema e la cultura sono le uniche armi per contrastare l’estremismo, e spero che con il mio film il pubblico possa vedere come i giovani arabi sono uguali ai loro coetanei europei: vogliono solo lottare per un futuro migliore”.

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