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Cultura
agosto, 2016

Lo squalo e il califfo

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Ogni estate si avvista un pescecane che terrorizza i bagnanti. Ora compare un pericolo umano che incute uguale paura. Perché non si sa dove colpirà. La riflessione dello scrittore campano

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Fateci caso: da un po’ di anni a questa parte non passa (o meglio, non comincia) estate senza che giornali, tv e web ci riferiscano dell’avvistamento di uno squalo (preferibilmente bianco) nelle nostre acque. La tappa più recente del tour italiano 2016 del divo acquatico di Hollywood di spielberghiana memoria sembra abbia toccato lo stretto di Messina appena un paio di settimane fa (il pubblico bagnante sarà stato in delirio, per non parlare degli operatori turistici). I cinque metri (così a occhio) di lunghezza del pescione dal ghigno psicopatico hanno subito fatto scattare l’allarme e spinto la capitaneria di porto a inviare un pattugliatore per perlustrare la zona interessata.

La notizia (al solito) si ferma qui, perché non s’è mai dato il caso – ma proprio mai – che all’avvistamento di un pescecane sia seguita la sua cattura o almeno, che so, la sua tentata dispersione tramite inseguimento fino a guadagnare un allontanamento sufficiente a presumere di aver superato lo stato di pericolo (ammesso poi che abbia senso tampinare uno squalo bianco per sfrattarlo da un braccio di mare e poi, una volta perso di vista, concludere: “Ok, gli abbiamo fatto capire chi è che comanda da queste parti: torniamo indietro, ragazzi”).

Ora. È possibile – almeno, a giudicare dalla ricorrenza degli avvistamenti – che uno squalo si trovi a passare per le nostre acque; ma dovrebbero anche spiegarci perché gli squali vengano avvistati sempre d’estate e mai, neanche una volta, nella stagione fredda; a meno di ritenere che anche gli squali bianchi vadano in vacanza e prediligano mete esotiche, esattamente come fanno quelli di noi che snobbano le patrie bellezze in favore di terre più lontane (di qui il celebre predicozzo secondo il quale “Chi va in vacanza all’estero è perché non conosce l’Italia”, con diverse variazioni sul tema, tipo: “Quelli che vanno all’estero senza aver mai visto davvero l’Italia non li farei nemmeno partire”).

Nei casi di avvistamento squalesco, è proprio la localizzazione del pericolo a generare quella rassicurazione scettica che poi costituisce il plancton di cui il terrore si nutre. Nel senso che se uno, in vacanza (metti) a Praia a Mare, viene a sapere dell’avvistamento di uno squalo bianco nello stretto di Messina, sarà portato a pensare: “Va be’, lo squalo bianco era nello stretto, io sono a Praia a Mare, per cui cosa me ne frega dello squalo bianco?”. E invece non è così.

Uno, perché nulla esclude che lo squalo bianco che qualche giorno prima si trovava nello stretto di Messina, qualche giorno dopo capiti a Praia a Mare (anche perché il bagnante, a meno che faccia l’oceanologo di mestiere, non ha alcuna idea di quanto tempo impieghi uno squalo bianco a spostarsi da un luogo all’altro: ma già i cinque metri di lunghezza di cui ha letto sul giornale rendono verosimile l’ipotesi che viaggi a velocità elevate).

Due (ed è la probabilità più sfigata, dunque quella a cui si è più portati a credere, perché se a pensar male ci si prende, a pensare il peggio per se stessi ancora di più): chi lo dice che lo squalo non solo venga direttamente da Messina a Praia a Mare, ma non incroci sulla sua rotta proprio il bagnante che pensava di essere fuori pericolo per via della distanza? Del resto, i pattugliatori usciti alla ricerca del serial killer marino non l’hanno mica trovato (gli squali non li trovano mai, li avvistano soltanto): cosa ne sanno, loro, di dove sia andato a finire? Nessuno sa dove sia lo squalo: questo è il problema.
Diego De Silva

È proprio questa immanenza virtuale del pericolo, la possibilità dell’attacco del pescecane che potrebbe essere ovunque e assalirti anche a Praia a Mare mentre sei in acqua e pensi: “Figurati se adesso lo squalo bianco viene da Messina giusto qui”; è esattamente questo il detonatore del terrore che le stragi dell’Is sono riuscite a diffondere in questo luglio di sangue (una sorta di Sindrome dello Squalo Itinerante o Psicosi da Squalo di Praia a Mare, ecco).

Nessun posto è sicuro, ce l’hanno detto e ripetuto, manco poi da soli non ci arrivassimo (infatti ogni tanto ce lo chiedevamo, come mai tutti quei militari nelle stazioni con le tute mimetiche e i mitra a tracolla). Il nuovo terrore è (ma soprattutto può essere) ovunque. Attacca indiscriminatamente persone e cose. Non ha più bisogno di luoghi né di personalità simboliche da colpire. Non si serve più neanche necessariamente di bombe e di armi da fuoco: uccide con i machete, i coltelli, addirittura con i camion.

Abbiamo a che fare con una tendenza stragista fondata sul libero subappalto del massacro con affiliazione successiva. Come si fosse inaugurata una forma di franchising del terrorismo in cui l’assegnazione del brand Stato islamico avviene a posteriori, per meriti di guerra conseguiti sul campo.

“Vai e uccidi, sarai dei nostri”: sembra essere questo lo strillo pubblicitario legato alla promessa del riconoscimento di un martirio postumo. Come se poi il martirio appartenesse al carnefice invece che alla vittima, defraudata dell’innocenza anche nella morte. È un altro attentato tipico di quest’epoca: il tentativo di usucapione della parola, estorta, derubata del suo significato e ribaltata a vantaggio di chi ne fa scempio (vogliamo rimettere i dizionari sulle scrivanie, per favore, e difendere il senso delle parole, prima che ci annichiliscano anche quelle?).

La delocalizzazione degli attentati ha rappresentato il salto di qualità mediatica dell’Is (o Daesh, come si compiace a pronunciare chi crede che i due termini siano sinonimi, mentre il secondo è la versione detrattiva del primo, ma poco conta per chi è convinto che dire Daesh faccia figo, esattamente come quelli che fanno ondeggiare la “a” di Hollande per dare a intendere che parlano il francese); ha affidato la grande distribuzione del terrore alla libera iniziativa dei singoli. Era quindi inevitabile che la frequenza e la varietà (tanto geografica quanto metodologica) degli attacchi e l’incomprensibilità della ferocia impiegata nello sterminio gratuito delle vittime, producessero delle ricadute in termini di psicologia di massa, di rapporto con il territorio, col prossimo e – giusta la stagione che stiamo attraversando – di scelta dei luoghi di vacanza. Perché poi (anche questo ce l’hanno spiegato più volte, pensando di nuovo che non capissimo) tutti gli obiettivi sono sensibili (un po’ come dire – di nuovo – che lo squalo può essere ovunque).

E fra l’altro, visto che ci spiegano tutto, potrebbero spiegarci anche quest’uso disinvolto e moderno della categoria della sensibilità. Che cos’è un obiettivo sensibile, un obiettivo che trema quando lo focalizzi? Un bersaglio mobile emozionalmente dotato? E già che ci siamo: perché i dati personali e le coordinate bancarie sono detti “dati sensibili”? Un Iban prova forse dei sentimenti? Avete mai conosciuto una patente gelosa? A me – confesso – ogni volta che sento parlare di dati sensibili viene in mente la melanzana psicolabile del finto chef vegano di Maurizio Crozza.

Ad ogni modo, e benché sembri un paradosso, l’obiettivo di questa guerra scriteriata non è lo spargimento del terrore ma la diffusione di uno stato d’animo collettivo più sottile e stabile, finanche tollerabile, una fragilizzazione progressiva del senso di sicurezza, il contagio di una paura anestetizzata che s’insinua nella normalità e l’ammala, condizionando spostamenti e relazioni sociali, innescando diffidenze, inducendo convinzioni sbagliate, aggiornando manie e spaventi, rituali ossessivi, coazioni a ripetere. È a questa paura gestibile e trasmissibile per comportamenti nevrotici che mira il terrore, non all’autoaffermazione, cioè al trionfo del terrore puro, un sentimento estremo che necessita di condizioni ambientali precise per riemergere, e dunque è precario per definizione.

Se, allora, siamo tutti (chi più chi meno) affetti da sindrome dello squalo itinerante, la domanda, visto che siamo in estate, è: dove andiamo al mare? Esistono località più a rischio di altre? Capitali del mondo con un livello maggiore di sicurezza? Ormai – a proposito di spiagge – l’Is attacca anche i bagnanti sotto l’ombrellone (altro che squalo bianco). E qui si distinguono vari profili d’angoscia, ai quali corrispondono strategie di autodifesa differenziate.

C’è chi, ribellandosi alla prospettiva d’intossicarsi il bagno, decide di non andarci per niente, al mare; e chi, all’opposto, accetta la sfida virile di affrontare di petto le proprie paure, quindi si spinge al largo (o parte per mete a rischio) apposta. Poi ci sono i moderati, che tengono il piede in due scarpe, scelgono spiagge poco frequentate (preferibilmente libere) e fanno il bagno con (appunto) moderazione, allontanandosi pochissimo dalla riva e fingendo di non sapere che gli squali attaccano anche in un metro d’acqua la preda che puntano.
Un profilo a parte è quello del turista speculativo, fatalista e concreto, che gioca sulle oscillazioni di mercato della paranoia per selezionare le occasioni vantaggiose, prenotare viaggi a basso costo, volare in business a prezzo economy, dormire in alberghi di lusso e prendersi anche il merito di sostenere il settore turistico alla faccia delle cronache mondiali.

Quanto alle fasce più colpite dalla psicosi terroristica (quelli, per capirci, che sudano appena un pullman si riempie, e li vedi preoccupati anche mentre fanno la fila alle casse del supermercato), un probabile effetto collaterale di questa contingenza (lo verificheremo alla fine dell’estate) sarà il rilancio dei paesi come località di villeggiatura snobbate da decenni. Le quotazioni delle sagre del fusillo, del raviolo, della salsiccia e broccoli e affini saliranno considerevolmente. Sarà la riscossa degli albergatori a poche stelle, la vendetta speculativa dei bed & breakfast realizzati nella veranda condonata della zia (che serve la colazione nella cucina di casa e nell’occasione smercia anche i prodotti del suo orticello). I vecchi amici di una volta, vedendoci tornare al paese dei nonni per la settimana di ferragosto ci rimprovereranno affettuosamente dicendo: “Ci volevano i terroristi per riportarti a casa”. E vai con gli scoponi, i tressette, i padrone e sotto, le giornate deliziosamente sprecate ai tavolini del bar come in una reunion votata alla pura deboscia.

Dulcis in fundo, c’è chi in vacanza non ci va perché non può permetterselo, o anche perché in vacanza si annoia o si deprime. Sono quelli che restano in città, e se gli chiedi perché ti danno risposte tipo: “Roma d’estate è bellissima”. Catatonici e indifferenti, detestano trovare il giornalaio chiuso a ferragosto e passano le ferie in casa vedendo Techetecheté a manetta e l’opera omnia di Totò in onda tutti i giorni dopo pranzo. Con loro, il terrore non prende. Anche se lo squalo dello stretto li incrociasse nelle acque di Praia a Mare, tirerebbe dritto per insoddisfazione. Sono gli obiettivi insensibili, quelli che non si arrenderanno mai, e non perché credono che sia giusto non cedere al terrore, ma perché proprio non ne hanno voglia.

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