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È l'inizio di una storia che dividerà le opinioni pubbliche in Europa e in Usa, perché il marine Minichiello verrà assunto a simbolo della protesta pacifista contro la guerra in Vietnam. Ma è un gigantesco abbaglio: Minichiello in Vietnam ci era andato volontario ed è stato pure decorato, non è affatto pacifista, però nel carcere italiano sarà orgoglioso di ricevere centinaia di lettere di solidarietà da hippies americani, comprese ragazze che vogliono sposarlo per aiutarlo a difendersi e ad uscire. La simpatia da cui è circondato è dovuta anche a un particolare importante: in tutta la vicenda il fuciliere italo-americano non ha fatto del male a nessuno e non ha sparato un colpo. Al processo di Roma, di fronte a una Corte allibita, il pilota e le hostess del Boeing 707 dirottato diranno che Ralph è un bravo ragazzo, turbato dal Vietnam, a loro non ha fatto niente e merita clemenza.
La surreale avventura del marine di Melito Irpino che sfidò gli Stati Uniti d'America è la chiave usata dal giornalista del Corriere della Sera Pier Luigi Vercesi per raccontare l'Italia, l'America (e il Vietnam) degli anni Sessanta e Settanta in un libro limpido e affascinante, “Il marine” (Mondadori, pp. 238, € 18). Già coautore di una “Storia del giornalismo americano”, Vercesi conduce un'accurata ricerca storica e giornalistica sulla vicenda in sè - ricostruita e discussa dai media di tutto il mondo occidentale - e sul contesto sociale e politico dell'epoca. Una ricostruzione la cui fonte principale è proprio lui, Ralph Minichiello che, tornato libero negli Usa, oggi regala Bibbie a tutti e «continua a credere in due sole cose: Gesù Cristo e il Corpo dei Marines».
Minichiello è stato a lungo intervistato dall'autore, come pure tutti i coprotagonisti ancora in vita. Ne risulta un quadro in cui il marine-dirottatore è il personaggio sotto i riflettori però agisce in uno spettacolo corale molto più grande e più importante di lui. Come osserva Vercesi: ci si aspetta un Rambo e si incontra un Forrest Gump.
Il quadro generale dell'epoca è un elemento di ricchezza del libro: ci si ritrova nella regione Campania del ministro Gava, interamente schierata a favore del paisà tornato dagli Usa e dal Vietnam, e sul fronte opposto si trova il furibondo presidente dell'Associazione Piloti Americani che propone ufficialmente un blitz militare per rapire il marine e riportarlo negli Usa, sottraendolo all'inaffidabile e troppo clemente giustizia italiana. Ci si trova a passeggiare fra la Woodstock di Joan Baez, il Vietnam di Jane Fonda e Susan Sontag e la Roma di Walter Chiari. L'attore, arrestato per droga, finisce in carcere a Regina Coeli, lì conosce Minichiello e gli confida: «Sai che Carlo Ponti, il marito di Sofia Loren, vuole fare un film su di te?». Un'idea che forse si realizzerà davvero, ora che sono passati tanti anni, visto che ora è in corso una trattativa per la riduzione cinematografica del libro.
A lettura conclusa resta, fra l'altro, un sentimento fra la nostalgia e lo stupore: per il candore di quell'epoca e di quel mondo, in cui una vicenda potenzialmente molto drammatica ha potuto concludersi senza un graffio per nessuno. A Roma, dopo l'arresto di Minichiello, il vicequestore Pietro Gulì si sente fare questa domanda da un giornalista americano: «Perché non gli avete piantato una pallottola in fronte?». Lui scuote la testa, sorride e gli risponde: «Ma le pare che siano proprio cose necessarie?».
Quanto al perché del dirottamento di Minichiello, è talmente assurdo che ci vuole un libro per spiegarlo.
«Il marine. Storia di Raffaele Minichiello, il soldato italo-americano che sfidò gli Stati Uniti d'America» di Pier Luigi Vercesi (Mondadori).