Cultura
giugno, 2017

"Il nuovo Pianeta delle Scimmie è la metafora della nostra autodistruzione"

Andy Serkis, protagonista del terzo episodio della saga sugli scimpanzè in uscita a luglio, ci racconta della performing capture, la tecnologia che permette di restituire alla scimmia che interpreta ogni singola espressione. E ci spiega perché, tra Trump e Brexit, la fantascienza è già realtà

Distopia: previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi. Se ne parla tanto, vale la pena dare la giusta definizione che riporta la Treccani.

I futuri distopici sono alla base della letteratura fantastica, e per forza di cose sono opere fortemente politiche. L’esempio lampante è “1984” di George Orwell, ma prima di lui ci pensò Jack London con “Il tallone di ferro”, in tempi più recenti Philip Roth con “Il complotto contro l’America”. La letteratura per ragazzi negli ultimi anni ha creato molti mondi alternativi, basti pensare a quello degli “Hunger Games”, successo planetario prima in libreria, e poi al cinema lanciando la stella di Jennifer Lawrence. E proprio il grande schermo ha fatto le fortune di tante altre saghe.
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Una delle più fortunate e longeve è quella tratta dal romanzo di Pierre Boulle “Il pianeta delle scimmie”, da cui sono poi nati cinque film originali, una serie tv live action e una a cartoni animati, albi a fumetti e un reboot cinematografico iniziato nel 2011 e arrivato quest’anno al terzo episodio.
“War of the Planet of the Apes” racconta l’escalation del conflitto tra ciò che resta dell’umanità sopravvissuta al virus che l’ha decimata e le scimmie pensanti guidate da Cesare, il protagonista della saga.

Ancora una volta a dare un corpo digitale, ma con un’interpretazione assolutamente reale e di grandissimo spessore, è Andy Serkis. L’attore inglese, universalmente ricordato come il Gollum della trilogia de “Il Signore degli anelli” diretta da Peter Jackson, è ormai il massimo esperto mondiale di “performing capture”, la tecnica che permette di trasformarsi digitalmente in ciò che la sceneggiatura richiede, mantenendo praticamente intatte tutte le sfumature anche fisiche dell’interpretazione.

Tutto questo grazie a una tuta ricoperta di sensori e una telecamera che registra e rielabora ogni minima espressione facciale. Dopo il debutto con il primo episodio tratto dal romanzo di J.R.R. Tolkien, Serkis si è appassionato a questa tecnologia e insieme alla Weta, la factory di effetti speciali digitali neozelandese che aveva ricreato per il cinema la Terra di Mezzo, ha iniziato a svilupparla dandole un senso molto più ampio, sia dal punto di vista tecnico che, soprattutto, artistico.
Ne abbiamo parlato con lui a Londra, poco dopo avere visto la prima ora di “The War-Il pianeta delle scimmie” (sarà questo il titolo italiano), che uscirà nei cinema italiani il 13 luglio. Un montaggio praticamente definitivo e per quello che abbiamo visto un film sorprendente per realismo e umanità.

«Quando alcuni anni fa mi proposero di lavorare alla nuova saga, mi documentai sulle condizioni in cui dovettero lavorare gli attori dei film originali», ci ha raccontato Serkis. «Per loro fu un inferno. Il trucco a cui si sottoponevano ogni giorno era pesantissimo e avevano una gamma espressiva molto limitata, perché per muovere la protesi facciale dovevano fare uno sforzo tremendo dei muscoli facciali. Grazie alla performing capture, invece, io e gli altri attori possiamo restituire alle nostre scimmie ogni piccola emozione che l’interpretazione richiede. Non siamo sagome attorno alle quali si costruisce un effetto speciale, ma attori in tutto e per tutto, con la possibilità di dare vita a qualunque personaggio».

Già da alcuni anni Serkis passa gran parte della sua vita negli storici Ealing Studios, i più antichi studi cinematografici londinesi, dove ha sede la sua casa di produzione, la Imaginarium.
Una factory tecnologicamente all’avanguardia dove vengono sviluppati solo progetti per cui è necessaria la performing capture. Tra questi anche i due film diretti dallo stesso attore e il cui primo, l’attesissimo “Jungle Book”, arriverà nelle sale il 19 ottobre 2018 con un cast incredibile. «Ho avuto l’onore di dirigere attori di livello straordinario per questo film. Benedict Cumberbatch, Christian Bale, Cate Blanchett, Naomi Harris, Freida Pinto. E poi mio figlio Louis, naturalmente». Serkis padre sarà Baloo, quindi un orso, questa volta. Ma questo è il futuro. Il presente è tutto per la scimmia Cesare. «Non riesco a pensare a un film migliore di “War of the Planet of the Apes” per i tempi che stiamo vivendo. È il racconto di una civiltà che si isola e chiude la porta verso gli altri, senza cercare soluzioni ai problemi se non l’uso della forza».

Un piccolo riassunto delle puntate precedenti. Nel primo film nasce Cesare, figlio di uno scimpanzé trattato con un farmaco sperimentale pensato per la cura dell’Alzheimer. Adottato dallo scienziato responsabile del progetto, crescendo Cesare dimostra capacità d’apprendimento e cognitive assolutamente umane.
Sarà lui a guidare le altre scimmie del laboratorio verso la libertà, mentre l’umanità inizia a essere decimata da un virus di cui loro stesse sono portatrici sane, sviluppatosi a seguito degli esperimenti.
Rifugiatisi nella foresta, i primati si organizzano in una comunità pacifica che evita contatti con gli esseri umani, che nel frattempo sono stati quasi spazzati via dall’epidemia. Organizzatisi in piccole comunità, vedono le scimmie come un pericolo da eliminare per evitare l’estinzione. Cesare non vuole una guerra, al contrario di Koba, suo generale che odia gli uomini per quello che gli hanno fatto quando era rinchiuso in laboratorio. Il conflitto, inevitabilmente, scoppierà, e si racconta in questo terzo episodio.
L’esercito umano è comandato dallo spietato Colonnello (un come sempre fantastico Woody Harrelson), che strapperà a Cesare quanto di più caro, costringendolo a intraprendere una caccia all’uomo per poter compiere la sua vendetta. Durante il suo viaggio Cesare scoprirà cose sconvolgenti sugli uomini, ma soprattutto dovrà fare delle scelte molto dolorose prima di affrontare il suo destino.

«Amo Cesare, è un personaggio shakespeariano con cui mi sono molto connesso nel corso degli anni. Gollum sarà per sempre il mio Dorian Gray, ma Cesare è diverso, ha avuto un’evoluzione straordinaria e in questo terzo film intraprende un percorso che lo porta ai limiti dell’autodistruzione. Sono sceso in luoghi molto oscuri per comprenderlo fino in fondo». L’autodistruzione è quanto accaduto invece all’umanità, un aspetto che rende la saga del “Pianeta delle Scimmie” quanto mai di attualità, dal rifiuto da parte del Presidente Trump degli accordi di Parigi sul clima al quotidiano bollettino di guerra del terrorismo globale. Un futuro distopico, ma non poi così tanto, anzi, decisamente più un monito a ciò che potrebbe accadere, come fu d’altronde già cinquant’anni fa quando uscì il classico interpretato da Charlton Heston.

«Quando la saga originale fu portata sullo schermo, tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta», commenta Serkis, «la metafora di fondo riguardava i diritti civili. La proiezione della società odierna nella saga è invece strettamente politica e racconta delle conseguenze a cui portano il populismo, l’intolleranza, la non accettazione del prossimo e della diversità. Tutte cose che stiamo vivendo qui nel Regno Unito in maniera assurda da un anno a questa parte dopo la Brexit».

Sarà un caso, ma la terra di Elisabetta II assomiglia ogni giorno più pericolosamente a quella descritta da Alan Moore nella magnifica graphic novel “V for Vendetta”. E ancora di più a quella di “Black Mirror”, serie di culto che si è permessa nella sua prima stagione di far fare sesso al primo ministro britannico con un maiale in diretta televisiva nazionale. Giusto quindi che sia proprio una video installazione ispirata allo show, prodotto oggi dal “Grande Fratello” Netflix, a dare il benvenuto ai visitatori della mostra “Into the Unknown-A journey through Science Fiction”.
Organizzata e allestita dal Barbican Center, farà di Londra la capitale mondiale dei futuri distopici fino al primo settembre. Uno sguardo sulla fantascienza e i suoi rapporti con la realtà, passata presente e futura. Dalla letteratura al cinema, ma anche musica, architettura, scienze applicate e teoriche, conquista dello spazio, robotica, idroponica, medicina sperimentale e ancora di più. Non a caso all’inaugurazione era presente la nostra Samantha Cristoforetti, la miglior testimonial possibile.
Intervista
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14/7/2014

Un ritorno di fiamma nei confronti di un genere che nel corso degli anni ha perso la sua connotazione esistenziale e filosofica. Film come “2001: odissea nello spazio”, “Solaris” e le opere letterarie da cui sono tratti, sarebbero per il pubblico odierno difficilmente comprensibili. Sarà interessante vedere come verrà accolto dalle nuove generazioni il sequel, tanto atteso quanto temuto dai cultori, di “Blade Runner”, con protagonista Ryan Gosling, al fianco di un sempiterno Harrison Ford che riprende il suo ruolo originale del cacciatore di replicanti Rick Deckard.

In cabina di regia di questo “Blade Runner 2049” è Denis Villeneuve, che proprio quest’anno ha riportato l’esistenzialismo nella fantascienza in “Arrival”. Nel cast anche Robin Wright, che intanto nei panni di Claire Underwood racconta da cinque stagioni l’inquietante distopia di un’America governata da una coppia senza scrupoli. Storia che rischia di diventare tragicamente poco interessante se rapportata alla realtà.
“The War-Il pianeta delle scimmie” non sarà quasi certamente l’ultimo episodio. «Il finale resta aperto», ci ha raccontato Serkis, «e l’intenzione è chiudere il cerchio, arrivando al punto di partenza, ovvero la storia del primo film della serie originale. E da lì ci sarebbe poi ancora tanto da raccontare».

Perché la Storia si ripete e quasi sempre non siamo in grado di imparare da questi ricorsi. Eppure, ripassare quello che hanno cercato di insegnarci attraverso i loro racconti e romanzi autori come Arthur C. Clarke, Richard Matheson, Philip K. Dick, Stanislaw Lem, tanto per citare i più famosi, sarebbe assai importante. Chi ha oggi sugli scaffali della libreria di casa una corposa collezione della vecchia collana Urania, potrebbe essere un lucido analista di politica internazionale ben più di tanti professionisti dal pragmatico rapporto con la realtà.

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