
“Boogie Nights” gli portò la prima nomination all’Oscar, per la migliore sceneggiatura, regalò un Golden Globe a Burt Reynolds, lanciò la futura stella Mark Wahlberg e fu un grande successo internazionale, di critica e di pubblico.
Il miglior viatico per l’ambizioso progetto successivo: “Magnolia”, un progetto che suscita l’interesse dell’allora uomo più potente di Hollywood, Tom Cruise, alla costante ricerca del ruolo che lo avrebbe portato all’Oscar. Ci sarebbe andato vicino con la sua interpretazione di Frank Mackey, guru della supremazia sessuale del maschio. Golden Globe anche per lui, un’altra nomination all’Oscar per la sceneggiatura per Anderson, Orso d’oro per il film al Festival di Berlino del 2000.
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Per Anderson arriveranno tanti premi negli anni a seguire, da Cannes a Venezia, ma non l’Oscar, nonostante le sei candidature. Ne fa vincere uno a Daniel Day-Lewis grazie allo straordinario ruolo ne “Il petroliere”, ritratto di un magnate della nascente industria dell’oro nero. Adesso potrebbe regalargliene un altro dopo avergli cucito addosso, è il caso di dirlo, il ruolo del geniale stilista Reynolds Woodcock nella sua ultima creazione, “Il filo nascosto”, che arriverà nei cinema italiani il 22 febbraio.
Un film realizzato molto velocemente per gli standard di Anderson, con le riprese iniziate a gennaio in Inghilterra, nello Yorkshire, e proseguite poi a Londra in un’elegante casa nel quartiere di Mayfair. Alla fine di novembre la prima uscita ufficiale, limitata a una sala di New York per tre giorni, il minimo necessario per poter rendere il film considerabile per i Golden Globe. Arrivano due candidature, per l’attore protagonista e la splendida colonna sonora firmata da Jonny Greenwood dei Radiohead. In attesa degli Oscar.

Reynolds Woodcock è un geniale stilista nella Londra degli anni Cinquanta. I suoi abiti sono opere d’arte, per una donna indossare un Woodcock è un privilegio, il suo atelier viene visitato dalla nobiltà britannica ed europea. Le giornate di Woodcock sono scandite da una perfetta routine, grazie all’aiuto della sorella Cyril (interpretata dall’attrice britannica Lesley Manville) che gestisce gli affari della maison e congeda le sue donne una volta venute a noia al fratello. Finché nella vita di Woodcock non arriva Alma (l’attrice lussemburghese Vicky Krieps, una vera scoperta), una cameriera di cui s’innamora a prima vista. Diventa la sua musa, ma anche la sua più grande debolezza.
“Il filo nascosto” è la sintesi del cinema di Paul Thomas Anderson, un’ode al cinema classico, girato rigorosamente in pellicola, di cui il regista è strenuo protettore, come Quentin Tarantino e Christopher Nolan. E Woodcock, geniale, meticoloso e in perenne competizione con lo scorrere del tempo, sembra un alter ego di Anderson. Il regista si tradisce un paio di volte durante il nostro incontro a Londra, in un elegante hotel a pochi passi da Covent Garden e non lontano dalla casa del suo stilista. Prima chiedendo alla sua assistente di far abbassare la voce a tutte le persone presenti nel salotto adiacente quello in cui stavamo conversando: «Lo faccio per lei, sta lavorando, non per me». E poi rimproverandola per essere entrata nella stanza senza essere chiamata, interrompendo il suo flusso di pensiero durante una risposta.
Tutto questo è molto Woodcock signor Anderson...
«Sì, forse sono un po’ come lui, ma non così tanto come sembra».
E come tutti i personaggi dei suoi film, Woodcock è ossessionato da qualcosa.
«È vero. Suppongo sia un’estensione di ciò che sono, è senz’altro un tratto autobiografico collegato al mio rapporto con la scrittura e la regia. Per quanto, sebbene avere un’ossessione, e i conseguenti comportamenti, venga considerata una cosa negativa nella maggior parte dei casi, sono altrettanto convinto che in alcuni frangenti sia un fattore molto sano. Mi piace pensare che le mie siano di questo tipo, come per i personaggi dei miei film. L’ossessione li spinge a compiere le azioni che portano avanti le storie che racconto».
Storie che mette in scena ricercando la perfezione, come fa Reynolds Woodcock nel realizzare i suoi abiti. “Il filo nascosto” ha delle scelte stilistiche completamente diverse rispetto ai suoi film precedenti.
«È buffo, mentre scrivevo mi rendevo conto che la storia appartiene in realtà ad Alma, la sua musa, ma lo stile e la meticolosità con cui l’ho messa in scena è puro Woodcock. Lo stesso atelier, questa casa giorgiana nel cuore di Londra in cui tutto doveva essere incontaminato, mi ha portato alla ricerca di una perfezione visiva diversa dal passato».
Perché uno stilista?
«Inizialmente avevo semplicemente una storia su un uomo e una donna, lui un personaggio meticoloso e in totale controllo della sua vita, regolata su una ripetizione di gesti scanditi nel tempo, impenetrabile e senza alcun bisogno di qualcuno al suo fianco. Non mi sono mai particolarmente interessato di alta moda, ma poi mi sono imbattuto nella biografia di Cristobal Balenciaga, “The Master of Us All” di Mary Blume, e questo ha fatto scattare la scintilla. Balenciaga era un genio, circondato dalle donne della sua vita, Florette Chelot, che gestiva i suoi affari, e le sarte della sua maison, che gli permettevano di dedicarsi esclusivamente al suo lavoro e alle sue creazioni. Ho immaginato quel mondo, fatto di ambienti eleganti, scale, abiti meravigliosi, donne in camici bianchi, e tutto mi sembrava meravigliosamente cinematografico. Inizialmente avevo pensato a uno scrittore, ma mi sono reso conto che sarebbe stato terribilmente noioso».
Woodcock ha bisogno della sua routine e di assoluta tranquillità per lavorare. Anche questo è un aspetto autobiografico?
«È una combinazione di elementi. Vengo da una famiglia numerosa, sono cresciuto nel caos, non è mai stato un problema lavorarci. Il set è un luogo rumoroso e pieno di confusione, ma in questo caso abbiamo azzerato quest’aspetto, perché Daniel ha invece bisogno di pace assoluta per potersi concentrare ed entrare completamente nel personaggio. La House of Woodcock era diventata la House of Daniel, con le stesse regole imposte dal personaggio nel film. Magnifico dal punto di vista cinematografico, ma ammetto che persino io ho avvertito un minimo di disagio. Fare film è una continua corsa contro il tempo, per la luce giusta che se ne va, per non sforare gli orari sindacali, per non essere cacciati dalla location. E tutto questo mi piace. Se per tranquillità si intende invece vivere una vita felice, allora è diverso. Molti scrittori rendono al meglio durante periodi cupi, o addirittura tragici della loro vita, traendo da questo dolore linfa creativa. Non io, ho scritto “Il petroliere”, che è un film decisamente oscuro, quando era appena nata mia figlia, ero al settimo cielo e avevo una grande creatività».
Parlando di creatività, lei è uno dei pochi cineasti americani contemporanei capaci di fare un cinema classico. “Il filo nascosto” è un melodramma tra Douglas Sirk e Max Ophüls che si trasforma in un film di Hitchcock.
«Sono cresciuto con il cinema degli anni Settanta, quello di Robert Altman prima di tutto, e per anni sono stato convinto che fosse quella la mia principale fonte d’ispirazione. Poi mi sono reso conto che non era così, che erano i film degli anni Quaranta e Cinquanta a parlarmi, da sempre. “Il petroliere” è un film di John Huston, “Ubriaco d’amore” una commedia di Jerry Lewis e Frank Tashlin. “Il filo nascosto” in effetti è il mio personale omaggio al cinema di Max Ophüls: mentre scrivevo avevo in mente “Nella morsa”, un film straordinario con Robert Ryan e James Mason, e naturalmente “Lettera da una sconosciuta”. Non uso le moderne convenzioni cinematografiche quando scrivo o dirigo, così come non amo la maggior parte delle innovazioni tecnologiche, ne uso qualcuna ogni tanto, ma raramente e non con piacere. Il cinema che amo e che voglio fare è quello che non c’è più».
Lei è uno dei pochi autori del cinema americano contemporaneo, e quando si parla con un autore, bisogna capire cosa vuole dirci. Ecco, me lo dica lei.
«È una domanda impossibile, non ho una risposta, è per questo che faccio film. Quando ho iniziato a fare cinema mi sono detto che la descrizione del mio lavoro sarebbe sempre dovuta essere la seguente: cerca di essere più onesto che puoi nel momento in cui lo fai. Se hai la fortuna di poter fare questo mestiere a lungo, guardarti indietro e avere la certezza che hai fatto del tuo meglio per esprimere quello che sentivi di dover condividere, realizzando buoni film, che hanno intrattenuto il pubblico, allora riesci ad andare avanti. Ma davvero non saprei dire cosa esattamente sto cercando di raccontare con i miei film».
Provo ad aiutarla. Il suo cinema è dominato da due grandi forze: il potere e l’amore, spesso in contrasto tra loro. “Il filo nascosto” è una sintesi perfetta del suo cinema.
«Sono d’accordo, e in questo caso c’è un profondo equilibrio tra questi due elementi, come non accadeva in altri miei film. “Il petroliere” è una storia dominata dalla brama di potere, mentre “Ubriaco d’amore” è l’esatto contrario, e in “The Master” (il film ispirato dal fondatore di Scientology, ndr.) i due elementi si annullano a vicenda. È vero, sono le due forze che maggiormente mi affascinano, perché sono quelle che spingono gli essere umani in quasi tutte le loro azioni. Ed è così che nascono le storie».
Ma tra le due preferisce decisamente l’amore. Mi sbaglio?
«No, non sbaglia. Senza l’amore non si va da nessuna parte».
Questo è il primo film che lei ha girato lontano dagli Stati Uniti. Non poteva scegliere momento migliore...
«Apparentemente sì, all’inizio lo pensavo anche io, ma in realtà è stato spaventoso. Abbiamo iniziato a girare in Inghilterra un giorno prima dell’insediamento di Donald Trump, la parte americana della troupe era minima, ma ognuno di noi aveva lo stesso sentimento: volevamo essere a casa, con le nostre famiglie, per assicurarci che non potesse accadere loro niente di male. Ogni sera, a fine riprese, il primo pensiero era prendere il telefono per accertarsi che l’America non fosse andata a fuoco».