Tornare oggi a Bologna, venti, trenta o quarant’anni dopo, è come tuffarsi dalla Torre degli Asinelli in uno straripante Amarcord, tanto per restare nella felliniana Emilia-Romagna. Oppure, per usare una metafora bellica, significa stare sul campo di battaglia quando la guerra è finita ma gli eroi sono ancora in piedi e continuano a lottare.
Perché questa città, forse più di ogni altra in Italia, omaggia i propri miti, li coccola e li accudisce, li rende immortali e talvolta li addomestica. E magari esagera, scade nell’autocompiacimento, nella sindrome melensa del “come eravamo”. Sono tutti coinvolti in questa operazione-memoria, che ha il sapore della nostalgia ma si spinge oltre, rinasce di generazione in generazione attraverso scrittori e fumettisti, writer e filmaker, editori, librai e agit prop, con mostre, anniversari, festival, concerti. Un’offerta culturale ipertrofica, in parte autofinanziata e spesso sostenuta dal Comune guidato dal Pd. Non sono ancora finite le celebrazioni per Pazienza, scomparso nel 1988 a soli 32 anni, con la riproposizione integrale della sua opera da parte di Coconino Press Fandango, che già inaugura “Sturmtruppen 50 anni” (fino al 7 aprile 2019 in Palazzo Fava), retrospettiva dedicata al genio irriverente di Bonvi, nome d’arte di Franco Bonvicini, il disegnatore che nel 1968 dava alle stampe la prima striscia dei suoi “soldaten”, che diventerà l’esercito a fumetti più sgangherato e famoso del mondo, simbolo dell’antimilitarismo. Oltre 250 opere provenienti dall’Archivio Bonvicini, in gran parte inedite.
[[ge:rep-locali:espresso:285326788]]
ANNI OTTANTA ANDATA E RITORNO
Sotto i portici la macchina del tempo non conosce sosta e contagia la letteratura. Incontriamo Enrico Brizzi in una mattina gelida di fine novembre in vicolo Ranocchi, all’Osteria del Sole, più che un’osteria un monumento cittadino - fin dal 1465! - le pareti tappezzate da memorabilia, foto e quadri, poesie e pensieri in ordine sparso. Un locale alla buona, anzi “alla vecchia” come dicono qui, gli habitué seduti ai tavoli con pane e mortadella comprati nel negozio accanto, il bicchiere già colmo di Lambrusco.

Lo scrittore, al centro di una polemica sul mancato versamento di una parte degli alimenti alla prima moglie e alle tre figlie minori, comincia a parlare di ieri, di oggi e del suo nuovo romanzo dal titolo shakespeariano, “Tu che sei di me la miglior parte” (Mondadori), in cui ha riavvolto il nastro fino agli anni Ottanta per raccontare la storia di Tommy Bandiera: orfano di padre, cresce con la mamma Alice e la famiglia di lei, ascoltando i racconti dell’avventuroso zio Ianez. I giochi con gli amici e le prime timide relazioni con le coetanee fino all’apparizione del vero amore, Ester, contesa con l’amico Raul, che di Tommy diventerà la guida e il carnefice. Un viaggio nella memoria dello scrittore 44enne, tra musicassette Tdk e le festicciole delle medie, lo zaino Invicta e la Vespa, sullo sfondo Bologna impastata di speranza e rabbia, amore e sesso.

«Sai una cosa? Qualche tempo fa ho scoperto che io e Stefano Accorsi siamo cugini!», comincia: «Mia madre ha incontrato una cugina in un paesino della bassa bolognese, che le ha detto: “Sai Luisa, ho pensato che essendo la zia di Stefano Accorsi, Enrico e Stefano sono cugini”». E così il cerchio si chiude, Brizzi rievoca Jack Frusciante, diventato cult dopo che Umberto Eco ne parlò nella sua rubrica, “La bustina di Minerva”, sulle pagine di questo settimanale, e procede in retromarcia fino agli anni della sua adolescenza, con il nuovo romanzo. «Scriverlo per me ha significato fare i conti con le radici, ma in maniera diversa rispetto al passato. A vent’anni ci sentiamo eroi, alla mia età invece guardo a quegli anni con altri occhi: tante volte sei stato vittima ma tante altre carnefice, hai approfittato delle situazioni, hai bullizzato un ragazzo più giovane. Se si vuole rompere questo cerchio bisogna essere onesti, capire che re e capro espiatorio in fondo sono la stessa persona, come mostra il filosofo francese René Girard nel suo celebre saggio, “Il capro espiatorio”. È come la storia di Mussolini, prima adorato e poi lapidato. Noi italiani dobbiamo smettere di volere i re, adorare un idolo vuol dire prepararsi a lapidarlo alla prima disfatta».
Brizzi allarga lo sguardo, racconta dei viaggi a piedi in giro per il mondo con il gruppo di amici Psicoatleti, che hanno ispirato reportage e libri, poi cita Francesco Guccini, la storia della città ribelle da sempre, convinta di poter fare da sola fin dai tempi in cui la Basilica di San Petronio sfidava per dimensioni quella di San Pietro in Vaticano. «Bologna è un posto da cui è bello partire ed è bellissimo tornare. Una città femmina, una mamma che dice al figlio: “S’ti bêl, al mi fangèin!”, “come sei bello, figlio mio!”. Il rischio è che ti protegga troppo».
UN PIANETA DI CARTOON
Un microcosmo concentrato in poche strade che da sole sono un mondo, frequentate da studenti, giovani creativi, artisti, veri intellettuali e aspiranti tali, una piccola folla itinerante e allegra con i suoi vezzi e i suoi tic, immortalata dallo scrittore Matteo Marchesini nel suo “False coscienze - Tre parabole degli anni zero” (Bompiani). Racconti che smontano luoghi comuni, fallimenti umani, svelano ambizioni di giovani adulti proiettati in un’adolescenza infinita. Tornano in mente le descrizioni di uno dei racconti, Rapida ascesa di B. Lojacono: «Eravamo lì riuniti per una di quelle presentazioni conviviali, un po’ cena e un po’ staffetta alcolica, che allora attiravano in città folte truppe di poeti-performer e di aspiranti Chandler (...). Stazionavano a poca distanza alcune ossute interpreti ex damsiane del Teatro di Parola, qualche anoressico assegnista esperto di Carnevalesco o Graphic Novel, e certi esili manipoli di ragazzotti con le code stoppose, l’iPod gracchiante musica irlandese e i regolamenti dei giochi di ruolo nelle tasche, che si riconoscevano subito per narratori fantasy (detti affettuosamente “hobbits”)».
I personaggi di Marchesini li incontri nelle piazze e nelle strade che parlano della storia della città, come via Mascarella. Qui l’11 marzo 1977 Francesco Lorusso, studente di Medicina e militante di Lotta Continua, viene ucciso da un carabiniere durante una manifestazione. Nei giorni seguenti si scatena l’inferno, Bologna viene messa a ferro e fuoco. Fa effetto tornare quarant’anni dopo in questa strada protetta dai portici, in occasione di BilBOlbul 2018, festival internazionale del fumetto, 25 mila visitatori in soli quattro giorni, Bologna trasformata in una tavola da disegno con mostre in cinquanta luoghi - tra gli altri il MAMbo, il museo d’arte moderna, e la Pinacoteca Nazionale - e una ragnatela di eventi off in posti come Modo Infoshop, una delle librerie indipendenti più attive, sempre in via Mascarella, all’Ortica o al Moustache, due locali nei paraggi.
L’epicentro resta l’Accademia di Belle Arti con il corso di laurea in Fumetto e Illustrazione, che accoglie studenti da ogni parte del globo e continua a sfornare talenti. Le sale sono austere, lontane dal pianeta colorato dei fumetti. Fa gli onori di casa Otto Gabos, alias Marco Rivelli, ciuffo bianco, barba e un elegante cappotto grigio, docente di Arte del fumetto e scrittura creativa e autore di romanzi grafici di successo tra cui “La giustizia siamo noi” (scritto da Pino Cacucci, Bur Rizzoli) e l’ultimo “Il viaggiatore distante - Atlantica” (Coconino Press - Fandango).

Un paio di battute e siamo a metà anni Ottanta con Gabos, cresciuto a Cagliari, sbarcato giovanissimo al Dams e nel caos creativo di Frigidaire. Il disegnatore è un fiume in piena, i ricordi riaffiorano in modo casuale mentre visitiamo la mostra “Guido Buzzelli. Anatomia delle macerie”, dedicata al padre del graphic novel italiano (collaborò anche con L’Espresso) scomparso nel 1992. Nella geografia dell’epoca il disegnatore menziona gli amici del Gruppo Valvoline e di Zio Feininger, leggendario corso post-diploma di fumetto e arti grafiche, luoghi scomparsi come il Casalone (adesso Covo Club), nel quartiere San Donato, nato nel 1980 come tempio punk e rock in un’epoca di transizione. «All’epoca Bologna pullulava di collettivi teatrali, gruppi di ricerca artistica, ci sembrava di conquistare il mondo. Per la musica erano anni incredibili, al Casalone passavano tutti, mentre al Q.BO’ ho visto Marc Almond, i Cocteau Twins e altre decine di concerti», racconta Gabos, che oggi ha 56 anni ed è punto di riferimento per autori di ogni età.
«Ora i giovani hanno talento, pubblicano libri, si autoproducono. Per molti Bologna resta una città-taxi, di passaggio, ma non è un male, non ho mai amato la retorica della fuga dei cervelli», conclude il fumettista: «Rispetto alla mia generazione quella attuale è meno legata ai luoghi, la tecnologia permette di lavorare dappertutto. Un tempo se nascevi a Cagliari o a Palermo eri obbligato a partire».
NOSTALGIA DELLA BOLOGNINA
Sarà, ma proprio da Catania è arrivata (fuggita) pochi anni fa una delle allieve più promettenti di Gabos: Josephine Yole Signorelli, classe 1991, in arte “Fumettibrutti”, dopo aver conquistato il web ha pubblicato per Feltrinelli Comics “Romanzo esplicito”, il suo esordio editoriale. Disegni autobiografici duri, spiazzanti, malinconici, tavole monocromatiche («il giallo è una risata amara, il blu primario la malinconia, il rosso passione, il nero è il mio segno») per raccontare il lato oscuro di sé, le difficoltà economiche, il lavoro nei night club per sbarcare il lunario, il sesso consumato in fretta, la solitudine. «Vedo i ragazzi della mia età che pensano all’amore. Mentre io scopo nelle macchine e nei campetti abbandonati», scrive Signorelli. «Appena arrivata a Bologna, per un anno e mezzo ho trascorso qui intere giornate a divorare libri e fumetti, era il mio rifugio silenzioso», racconta mentre sorseggia un caffè nel bar di Salaborsa, la biblioteca nel trecentesco Palazzo d’Accursio, davanti alla fontana del Nettuno.

Usciamo insieme dal centro, avvolgente e rassicurante, e ci spostiamo in periferia, alla Bolognina, dove l’autrice ha abitato per due anni e mezzo e tuttora porta nel cuore. Oggi il quartiere passato alla storia per la “svolta” del Pci annunciata da Achille Occhetto nel 1989 è una zona di frontiera, enclave multietnica e simbolo di riqualificazione, con la stazione dell’Alta Velocità e i nuovi uffici del Comune in vetro e acciaio, gli edifici residenziali in costruzione e uno storico spazio sociale autogestito, l’XM24, sotto minaccia di sgombero da parte del Comune, dove la fumettista è di casa. «La periferia di Bologna è brutta, ma questa parola non ha un’accezione necessariamente negativa, un po’ come per i miei “Fumettibrutti”. La convivenza con gli stranieri? Siamo tutti disperati, a prescindere dal colore della pelle. A Bologna anche io a volte da siciliana mi sono sentita straniera, e insieme alle mie amiche russe e romene ho combattuto per la sopravvivenza. Per questo forse non ho mai sentito differenze».
Spesso le energie migliori circolano in periferia, negli spazi occupati e nei locali per la musica dal vivo come il Locomotiv Club, a pochi isolati dall’XM24. Dentro bar immaginari come il 123, il cui gestore, Andrea, dà il titolo al romanzo grafico scritto dalla band Lo Stato Sociale e disegnato da Luca Genovese (Feltrinelli Comics). Alienato dalla routine quotidiana, Andrea vede passare davanti al suo bancone una Bologna travolta da progetti urbanistici ambiziosi, metafora di un’Italia divisa, e cerca in tutti i modi la fuga.

«Quella di “Andrea” è una periferia romanzata, molto simile a quelle in cui siamo cresciuti e dove ci siamo conosciuti. Io ad esempio vengo da San Ruffillo, dove alle nove di sera è tutto chiuso e le due o tre biblioteche di una volta non ci sono più», dice Alberto Guidetti, in arte Bebo, voce e drum machine del gruppo di indie pop, sempre in bilico tra impegno e cazzeggio, mentre beve una birra al bar Fermento, in piena Bolognina, seduto accanto a Genovese e agli altri membri della band. Manca Lodo Guenzi, giudice di X Factor. Malgrado il successo e il secondo posto a Sanremo con il brano “Una vita in vacanza” , Lo Stato Sociale non ha dimenticato le radici e i riferimenti musicali bolognesi: ha reso omaggio agli Skiantos con “Sono un ribelle, mamma” e a Lucio Dalla con «Com’è profondo il levare”. «Dalla era un grande, ma è stato santificato solo quando è morto. Era omosessuale, quando usciva con le pellicce in piazza Maggiore i benpensanti lo guardavano male, dicevano che era strambo», conclude Bebo. E pensare che pochi giorni fa in via d’Azeglio, la strada in cui abitava il grande cantautore, si sono accese le luminarie di Natale con i versi di “L’anno che verrà”.
1951, FESTA DELL'UNITÀ
Ancora una volta il capoluogo emiliano celebra i suoi eroi e coltiva la memoria. Come la Fondazione Cineteca di Bologna, una delle più importanti d’Europa, con il laboratorio di restauro L’Immagine Ritrovata. Ogni anno in piazza Maggiore si svolge il festival Il Cinema Ritrovato (dal 22 al 30 giugno 2019), rassegna dedicata alla riscoperta di film rari da fine Ottocento ai nostri giorni. Senza contare un altro tesoro meno noto, in via Sant’Isaia: l’Archivio nazionale del film di famiglia, fondato nel 2002 e gestito dall’associazione Home Movies, ha l’obiettivo di salvare le pellicole cinematografiche dimenticate dalle famiglie italiane in soffitte e cantine. Un patrimonio cospicuo, circa 27mila pellicole finora acquisite, dal Piemonte alla Sicilia, in cui le vicende private si intrecciano con un racconto più ampio, artistico e collettivo. Alcuni film sperimentali e d’artista (Arnaldo Pomodoro tra gli altri), realizzati tra il 1966 e il 1976 e custoditi nell’archivio, sono stati proiettati a fine novembre nella rassegna “Quasi un 68 / Almost 68” , in occasione del festival Archivio Aperto.
In altri casi, dall’archivio nascono opere originali che consentono di rileggere la storia d’Italia. Il cortometraggio “’51” , con il testo di Wu Ming 2, riprende il film di Angelo Marzadori, cineamatore militante comunista, girato durante la Festa dell’Unità del 1951. Le immagini, realizzate alla Montagnola e riutilizzate dal collettivo di scrittori, aprono a una riflessione sulla cultura del Pci. «La forma nazionalpopolare della festa svela la natura lontana dall’ideologia comunista e il conformismo degli apparati di partito e della loro propaganda in una città simbolo», spiega Paolo Simoni, cofondatore di Home Movies e autore di “Lost Landscapes” (Kaplan edizioni). E così Bologna, con la sua storia e il suo cinema, diventa metafora di una vicenda più ampia. Fino all’avvento del videotape, negli anni ’80. Anzi, al 2 agosto 1980. «La strage alla stazione segna un passaggio reale e simbolico a un diverso immaginario cittadino», conclude Simoni. E il cerchio si chiude. Ancora una volta.