
Una sfida vinta, a quanto pare, perché a un anno dalla sua apertura l’esposizione di Halilovic non solo continua a ricevere apprezzamenti. Ma ha anche ottenuto un prestigioso e storico riconoscimento: il Premio Museo 2018 che il Consiglio d’Europa gli ha appena assegnato, elogiando un progetto «deliberatamente apolitico, che colma una lacuna nel documentare le esperienze di guerra dal punto di vista del bambino, e che potrebbe essere replicato in altre zone di conflitto nel mondo». Halilovic conferma: «Stiamo effettivamente pensando di mutuare questa esperienza anche in Libano, in Ucraina, negli Stati Uniti. Questo luogo parla una lingua universale e in tutto il mondo ci sono comunità che hanno vissuto o che vivono esperienze simili».

Il museo è un unicum nel suo genere e raccoglie oggetti appartenuti a bambini sarajevesi durante l’assedio: disegni, giocattoli, un libro bruciacchiato salvato dall’incendio della Vije?nica (la biblioteca nazionale), una stufetta rudimentale costruita con i frammenti di una grondaia, scarpette da ballo, una latta della famigerata IKAR, la carne in scatola prodotta in Italia e distribuita tramite i soccorsi umanitari. «È stato necessario creare un clima di fiducia verso questo progetto, poi le donazioni sono arrivate spontaneamente. A tutti coloro che hanno voluto condividere con noi un pezzo così importante della loro vita abbiamo solo promesso che avremmo portato avanti questa iniziativa con dignità e onestà».
Per offrire un’esperienza più completa, il museo raccoglie anche testimonianze video con le storie di una cinquantina di piccoli protagonisti. «Quello che emerge è quanto complessa possa essere la percezione dei bambini durante avvenimenti così drammatici. I bambini non sono soggetti passivi ma protagonisti, persone che hanno saputo esprimere una creatività e una forza davvero insospettabile». Un testimone che passa idealmente dai bambini di ieri a quelli di oggi, grazie allo sforzo di divulgazione compiuto da Halilovic: «Ricerca ed educazione sono i capisaldi di questo progetto. Abbiamo svolto seminari per raggiungere migliaia di ragazzi nelle scuole di tutto il Paese».

La cultura, come quella espressa da questo museo, sembra rappresentare un filo conduttore nella storia di Sarajevo. Sotto le bombe del più lungo assedio della storia moderna, Sarajevo seppe andare oltre l’immane sforzo di resistere alla fame e alle privazioni: continuò a vivere. La cultura fu uno dei pilastri su cui si fondò la strategia della sua resilienza psicologica, condizione necessaria affinché anche quella fisica potesse avere qualche chance di successo. Come per reazione alle brutalità che miravano alla cancellazione di luoghi e simboli della cultura, la popolazione ebbe un insuperabile slancio d’orgoglio: furono migliaia le iniziative culturali in città, accomunate non solo dalla precarietà ma anche dalla partecipazione della gente, spesso a rischio della vita. Oggi le armi tacciono ma la società bosniaca è attraversata da tensioni interetniche, fomentate da una classe dirigente consapevole che le divisioni sono la condizione per la loro sopravvivenza. Crisi economica, disoccupazione, pensioni e stipendi sotto i limiti della povertà sono i tratti della Bosnia di oggi, incapace di individuare una via d’uscita unitaria persino sull’ipotesi di un ingresso nella comunità europea. «Si respira un clima di sfiducia, la concordia è difficile da ricostruire. Ma so che Sarajevo saprà ritrovare la sua capacità di essere un luogo dove le diversità possono coesistere». La cultura tiene accesa la speranza.