Nel decennale del terremoto, il grande compositore consegna all’Aquila una Sinfonia delle Stagioni, che esalta la primavera.  E spiega il senso della rinascita, della bellezza, dello stupore

Nicola Piovani, il Maestro che guarda il mondo dalla prua

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C’è un tempo per ogni cosa: «Uno per ridere e uno per piangere, un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli. Uno per ascoltare in silenzio Bach e uno per ballare la samba». Le stagioni lo sanno. Ma guai a sbagliare i tempi. «I concerti delle Quattro stagioni iniziano tutti dalla primavera, per finire con l’inverno. Ma si può musicare l’inverno, e consegnarlo a chi ha già vissuto dolore e lutti? L’intuizione è stata di cominciare, invece, dall’estate. Per concludere con la primavera, tempo di rinascita, di ottimismo, di speranza. Da queste stagioni rovesciate è nata la “Sinfonia delle Stagioni”».

Quasi duecento musiche per film tra i più belli della storia del cinema, dai primi anni Settanta a oggi. Collaborazioni con registi come Federico Fellini e i Fratelli Taviani, Mario Monicelli, Nanni Moretti, Giuseppe Tornatore. Musiche di scena. Concerti memorabili come “La Pietà”, moderno Stabat mater con la firma di Vincenzo Cerami, le voci di Gigi Proietti, di Amii Stewart e di Maria Rita Combattelli, rappresentata a Betlemme e a Tel Aviv e appena riproposta al Teatro dell’Opera di Roma e al Maggio musicale fiorentino. Decine di canzoni, inclusi due album con Fabrizio De André. Sipari aperti in tutto il mondo. L’Oscar per le musiche de “La vita è bella” di Roberto Benigni. Ma quando Nicola Piovani parla della sua ultima opera ha la cura e la trepidazione di un artista agli inizi. «Spero di essere stato all’altezza della situazione. Il tema richiedeva grande rispetto», dice.

È domenica 7 aprile, nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila, la prima esecuzione assoluta della “Sinfonia delle Stagioni”, commissionata dalla Società Aquilana dei Concerti “B. Barattelli”: duecento pagine di partitura, un anno di lavoro, un’opera per quattro cantanti, una voce recitante, l’Orchestra sinfonica abruzzese, il Coro delle Voci bianche dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Nel decennale del terremoto.
«I quattro momenti di rinascita della Sinfonia ci riguardano tutti: lei, me. E questa terra. Mentre negli scorsi anni sentivi prevalere la rassegnazione e il senso del definitivo, oggi cogli i segni della primavera, appunto. Credo di aver scritto una partitura leale, che non punta all’effetto spettacolare, ma che traduce il mio modo di affrontare la morte, il dolore e la rinascita. È un lavoro che mi somiglia davvero molto».
È un’idea che ritorna nella conversazione questa simmetria tra le opere e i giorni: «Sentire l’armonia tra chi sono e quello che faccio mi aiuta a non avere troppa paura della morte». Coerenza praticata con impegno. E con sguardo aperto al nuovo.

«Stupore? Lo provo spesso quando scopro un nuovo artista. O quando uno, che a lungo ho considerato minore, accende una fiamma nella mia vita. Mi è successo con Berlioz, durante una prova di “Roméo et Juliet” diretto da Bernstein: è stato come se una luce avesse illuminato di colpo una stanza. Sono corso a conoscere quella musica. Non che non la conoscessi: ma credo che si conosca davvero soltanto quello che si ama. Ho dedicato molto tempo a studiare la musica dodecafonica, post avanguardista, per esempio: ma probabilmente sono ancora lontano dal conoscerla». Non se ne è mai innamorato veramente. «Un forte senso di stupore ho provato scoprendo il primo concerto per violoncello di Saint-Saëns, che avevo sottovalutato. La musica che mi seduce è quella che sa sorprendermi, e arriva quando meno me l’aspetto. Ascolto la radio, Spotify. Ma so che è talmente ampio il panorama musicale, letterario, artistico che le lacune saranno sempre più delle cose che conosco». Constatazione che in tempi di information overload, obesità da stimoli e da dati, più che pigra resa è strada che guida dritta alle sorprese. «Le ultime scoperte che ho fatto le devo a uno dei miei due figli, che vive a Parigi. Cleo Sol è un’artista che mi ha segnalato lui. E per caso l’altro giorno alla radio ho scoperto Félicien David. Sto ascoltando e riascoltando un suo trio che mi euforizza, coniuga bellezza espressiva e stupore. Per ora me lo godo, lascio a dopo un eventuale giudizio critico».

Se c’è qualcosa che invece lo irrita è la nostalgia. Gli abusi della memoria, per dirla con Tzvetan Todorov: quella nostalgia senza spirito critico che ti fa rimpiangere un passato idealizzato e impedisce di apprezzare il tuo tempo. Inaccettabile per il Maestro che vive nel presente. Anzi, nel futuro.

«Non ce l’ho col sentimento della nostalgia in sé, che pure è bello, e che tutti proviamo. Mi infastidisce quando trasformiamo la nostalgia in ideologia. Quando rimpiangiamo i tempi in cui Internet non c’era, e diventiamo tutti misoneisti. La nostalgia è un sentimento umanissimo, ma è come la gelosia: può provocare crimini. Fa danni, la nostalgia: ti fa vivere con la testa girata a poppa anziché a prua. Domenico De Masi riporta in un libro un episodio che mi ha fatto riflettere. Racconta degli emigranti negli anni Dieci, Venti del secolo scorso, che partivano per l’America e viaggiavano in terza classe, senza poter uscire allo scoperto. Gli era consentito solo quando i ricchi andavano a pranzo. Senza un criterio né un ordine prestabilito, metà dei migranti correva a guardare il mare a poppa, l’altra metà si dirigeva verso prua. Entrambi avevano davanti lo stesso mare. Però quelli che guardavano a prua puntavano all’America immaginata, alla vita futura. Quelli che guardavano a poppa ripensavano a ciò che avevano lasciato. Fare uno sforzo per vivere da uomini di prua ci aiuta molto, a tutte le età, anche alla mia».

Età che si fa beffa dell’anagrafe, la sua. Densa di progetti e di interessi.
«La felicità, mi chiede. Naturalmente ci punto molto, come tutti. Ma cerco di non confonderla con l’edonismo. Se cito quel che diceva Kant - “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” - può suonare un po’ ambizioso, ma rende l’idea. E poi sappiamo che la felicità si annida in momenti minimi del nostro quotidiano: scolare la pasta con quattro amici che aspettano a tavola, attendere che un sipario si alzi - da dietro le quinte, o seduto in platea -, condividere un’improvvisa risata con i miei figli, per non dire dei momenti che a tratti il dio Eros ci regala. Ma la felicità più profonda, forse, la provo in teatro, quando sento che una musica che ho suonato è entrata in sintonia vera con qualcuno del pubblico. C’è questa idea che il successo si faccia replicando quelli passati. Io sono stato molto fortunato, perché ho avuto maestri che mi hanno insegnato il contrario».

Maestri di libertà mentale: «Elsa Morante, Fabrizio De André: il suo percorso è stato sempre di ricerca e mai di replica. Se avesse seguito i consigli dei distributori e le leggi di mercato, avrebbe passato la vita a scrivere “marinelle”. Invece, ha viaggiato nei Vangeli, con Spoon River, nel dialetto di Crêuza de mä, tra Le nuvole. Così come ho visto Federico Fellini, a cui i produttori americani proponevano ricchi assegni per un film con circo nanetti e ballerine, rispondere: «È un’idea meravigliosa. Ma l’ho già fatta». Anche il film “La vita è bella” è nato contro il parere di produttori e distributori. Sembrava una follia, per molti addirittura masochistica, di Roberto Benigni e di Vincenzo Cerami». È l’unico accenno all’Oscar che Piovani fa. Assente anche dal libro pubblicato da qualche anno “La musica è pericolosa” (Rizzoli), titolo di un suo concerto di successo, ed espressione usata da Fellini per confessare la sua vulnerabilità: «Dell’Oscar si è detto e scritto così tanto. È indubbio che abbia cambiato il rapporto degli altri con me. Lo sforzo è stato quello di evitare che cambiasse me: è stato un onore che potevo convertire in più soldi o in più libertà. Ho scelto la libertà di selezionare i lavori non in base ai guadagni, ma a ciò che mi interessa. Il mio lusso è fare cose che non ho ancora fatto. Ora, la “Sinfonia delle Stagioni”. L’anno prossimo un progetto che aspetta da 35 anni».

Cita più volte Eduardo de Filippo, la poetessa Wislawa Szymborska, schiva ovvietà e risposte già date, pondera le parole. Ma quando scoppia a ridere, Piovani, lo fa all’improvviso, inaspettatamente. E si capisce che la sua fantasia è nel frattempo volata altrove. Tra una nota e l’altra, tamburellata dalla mano destra sul pugno chiuso della sinistra.
«Mi piacerebbe passare un po’ di tempo a Vienna. Ci sono stato una volta sola, e sento che in quei luoghi di grande tradizione musicale c’è qualcosa che mi aspetta. Ma il viaggio non è più motivo di richiamo. Tornando da Strasburgo, o da Matera, o da Teheran o da altri posti per lavoro, l’idea di rimettermi a fare un check-in, di andare in albergo, ricordarmi il numero della camera, non mi esalta. Ho sempre un forte desiderio di stare qui, andare al mercato, incontrare gli amici, al cinema alle sei e la pizza dopo». Qui è Roma, Monteverdevecchio tutto attaccato come scrive lui, che è nato invece nel quartiere Trionfale, l’infanzia scandita dall’amore per la musica del padre, suonatore di cornetta in si bemolle nella banda di Corchiano, nel viterbese. E dalla radio della madre, le sigle a ritmare i giorni, come «bussola sonora». «Oggi sono le suonerie del telefono a siglare le chiamate. Io le distinguo a seconda di chi mi chiama, è comodo». Ma usa quelle classiche, o le ha modificate? «Uso quelle in dotazione dei cellulari. Sarebbe ancora più fastidioso interrompere un brano di Mozart per rispondere», dice, accennando alla sinfonia n. 40: mireré-mireré-mirerési. «Però ho delle suonerie che non suonano più. Andando avanti negli anni, le perdite importanti cominciano a essere tante. Mi vengono in mente quei versi di Caproni che fanno così: “E ora che avevo cominciato a capire il paesaggio: “Si scende”, dice il capotreno. “È finito il viaggio”. Amo molto la poesia, la leggo e la rileggo. Riesce a disinnescare la malinconia, facendola vivere. Come la musica ha un tipo di bellezza che è fatta di conoscenza. Di ri-conoscenza. È come quando ti innamori di qualcuno, ti piace il suo modo di sorridere, ti colpisce il modo di guardare, e la bellezza smette di seguire parametri oggettivi. L’idea che io ne ho non è armonia di forme, equilibrio. È la scintilla che nasce dal conflitto tra consonanza e dissonanza. Ed è un modo di guardare le cose più a fondo della schematicità dentro la quale siamo affogati». ?Uomo di sinistra («non di centro-sinistra), oggi cautamente ottimista, impegnato da sempre («anche con molti errori»), esulta per l’ultima battaglia sostenuta: l’approvazione della direttiva sul copyright. E nella vitalità attuale del teatro riconosce un segnale forte di resistenza: «Il moltiplicarsi della riproduzione virtuale di film e serie porta a svalorizzare l’immagine, che un tempo era preziosa. Il teatro, al contrario, diventa sempre più potente. Io sento la grande differenza fra lavorare in teatro e in tv. Chi viene a teatro ha scelto, e sa di poter condizionare lo spettacolo: può incoraggiare con un consenso o scoraggiare con uno sbadiglio. E non c’è niente di più bello di quando il pubblico si scatena in un applauso. Facendo appello a ciò che di più nobile ha nell’animo». E qui il Maestro si appassiona a un altro tema: rendere più democratico l’accesso: «Gli enti lirici giustamente ricevono denaro pubblico, perché l’opera è un patrimonio che va difeso. Ma uno dei modi per promuoverla è favorire la presenza del pubblico al teatro. Se un biglietto in platea costa più di cento euro stiamo facendo selezione di classe. Perché col denaro pubblico si deve finanziare un privilegio?». È su Twitter che affida spesso pensieri come questo: «Ho un account che gestisco personalmente. Mi sta molto a cuore il tema del linguaggio. Oggi, una delle cose di cui soffriamo di più è il linguaggio usato fuori contesto: come nelle intercettazioni che, al di là del contenuto, sono violazioni della privacy. C’è confusione tra linguaggi: nei ragionamenti politici, che hanno bisogno di concretezza, si intrecciano poesia e filosofia. Assistiamo a un trasporto di linguaggio da Caffè Sport, da uomo qualunque, però mitizzato, nelle sedi istituzionali. E siamo soffocati dalla metafora. Che è strumento prezioso della retorica, ma in politica serve a coprire il fatto che non c’è il concetto». Molta metafora per nulla. «Che tempo è questo per me? Di rispetto. Cerco di rispettare l’unità e la correttezza tra testo e contesto», tra ciò in cui crede e ciò che fa. Rivolto a prua. Ma con tutti gli incontri che l’hanno contagiato vivi dentro di lui. «Cerami? Neanche a parlarne», solfeggia con la mano un quarto movimento, come a dire «lasciamo perdere». E intanto disegna nell’aria ricordi: la Compagnia della luna, i sodalizi artistici, l’amicizia.

«Potrei citare Manos Hadjidakis, il mio maestro. Ma forse le lezioni più profonde e leggere insieme le ho ricevute da Fellini. Come quella volta che, finito di lavorare, a Cinecittà, provammo a rientrare a casa con la mia macchina. Lasciata la via Tuscolana, finimmo in mezzo alla campagna, tra case abusive e carcasse di auto. Fellini era estasiato. Io proprio no. Non senza difficoltà, ritrovammo la strada. La sera dopo, stessa situazione. “E se ci perdiamo?”, gli domandai. La sua risposta risuona spesso nella mia vita: “Speriamo!”». Se ci perdiamo, sarà stupore. 

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