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La Swanson si lasciò subito andare a una ventina di minuti di racconti, battute, amiccamenti eccetera eccetera, su von Stroheim, e Joe Kennedy, padre del Presidente e co-produttore del film. Ogni tanto lo salutava idealmente con la manina. Faceva capire. Faceva intendere. Kennedy sr era ancora vivo. Sembrava di vederli sul divano del produttore. Solo che essendo anche lei produttrice, nell’ufficio di chi si trovava il divano? Arzigogolammo un po’. Arbasino ci raccontò che Kennedy ai tempi dei tempi, prima di diventare ambasciatore a Londra, finanziava un po’ di cinema porno. In sala spuntò Lotte Lenya.
Arbasino si divertì molto. Non poteva che essere così. Von Stroheim e Gloria Swanson probabilmente gli hanno letto in testa prima che lui nascesse e avevano pensato “Queen Kelly” per lui. Due diavoli. Gli stessi due che come Norma Desmond e Von Mayerling, i nomi dei loro personaggi, tengono in piedi “ Viale del Tramonto”. “Queen Kelly” era (è) infatti una arbasinata ante litteram e moltiplicata per mille. Lui si trovò subito a casa. Ecco la trama.
Prossimo alle nozze con la Regina V di Kronsberg, il Principe Wolfram durante una esercitazione incontra l’orfanella Patricia Kelly. Guardandolo, a lei cascano letteralmente le mutandine. Plof. Notte brava tra i due. La regina li scopre, caccia Patricia a frustate e mette in cella Wolfram. Il film finisce con Patricia affogata come Ofelia e Wolfram con una spada in mano che medita non si sa che. Ma, ma, ma...
Intanto inventano il sonoro, il film è muto, e nessuno vuole distribuirlo. Allora fu cambiato il finale. Patricia viene salvata dalle acque, va in Africa da una zia, sposa un tizio mal rasato e diventa tenutaria di un bordello. Diritto di mutanda: chi c’è c’è. Arriva Wolfram che la salva e ne fa una Regina, da cui il titolo, la “Regina Kelly”. Ma, tanto per esser più chiari, cercarono di distribuirlo anche col titolo “The swamp”, la palude. Arbasino uscì in gloria. Gli facemmo notare che alla sceneggiatura aveva lavorato anche Delmer Daves, il regista della “Fuga” con Humphrey Bogart e di “Quel treno per Yuma” con Glenn Ford. Non ne fu impressionato. L’unica delusione, vedendo Lotte Lenya uscire tra la folla: «È stata moglie di Kurt Weill, la musa ispiratrice di Berthold Brecht, di “Mahagonny” e dell’“Opera da tre soldi”, perché ha fatto “Dalla Russia con amore”?».
Ma c’era il Jazz. Disse che qualcuno lo aspettava nel Lower east side di Manhattan in un locale dove suonava l’“Arkestra” di Sun Ra, pianista filosofo compositore di stra-nicchia, allora. Arbasino ci aveva battuti : il locale, non di gran nome, era nascosto in un postaccio («come fa a sapere che esiste, non è in nessuna guida»). “Arkestra” perché così i neri pronunciano la parola orchestra, disse Sun Ra. Eppoi Sun Ra faceva un jazz quasi mistico, new age spinta, in sintonia con il suo pensiero. Era un afro-futurista, convinto che gli afro-americani venissero da un altro pianeta, Saturno forse. Anzi, ne era sicuro. La sua musica rifletteva tutto questo.
Ogni tanto, vestito con quelle che sembravano pesanti coperte colorate luccicanti di paillettes lo ricordava. E giù note. Voleva essere jazz d’avanguardia, ultra be bop, ma Sun Ra non era, né è, John Coltrane. Arbasino non batté ciglio alla lezione di filosofia di Sun Ra, capì dal nostro sguardo cosa pensavamo (forse la stessa cosa pensava lui) ma, paziente e con un sorrisino sulle labbra, beveva e ascoltava. Lo ammirammo. A complicare le cose, l’amica che lo aveva invitato tirò fuori un libro, l’“Estetica” di Benedetto Croce. Alle due del mattino. Si mise a leggerlo. In taxi venne da ridere anche a lui…
Ghiotto di Cheesecake. Mesi dopo, tornando in Italia, gliene comprai una porzione enorme, mi feci fare un accrocco che lo mantenesse per 12 ore e, arrivato a Roma, andai a casa sua. Non c’era. L’ho rivisto per anni, ma non troppissimo, per doveri redazionali, ogni tanto, o al “Baretto” di Via Condotti un po’ più spesso. Scrissi male di una cosa di Sergio Leone e, bicchiere in mano, mi tirò le orecchie. Poi mi disse che Edmund Wilson era stato sleale con lui: gli aveva organizzato una cena e quello lo aveva sbertucciato in un suo diario.
Una volta si incazzò ferocemente perché, “passando” un suo pezzo, avevo messo una j in meno nel nome di un teatro moscovita. Era tignoso: una leggenda. Non ci mandammo affanculo direttamente. Lui era troppo educato, e io ero davanti a uno scrittore che ammiravo. Ma dentro di me lo feci. Avevo ragione io.
Lo ammise alla festa di Natale che organizza Battistoni. Erano passati alcuni anni. Ci abbiamo bevuto su.