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Cultura
marzo, 2020

"L'intellettuale deve sempre dire la sua": addio Alberto Arbasino, protagonista del '900

È morto nella notte lo il giornalista e scrittore. Lo ricordiamo con questo articolo che scrisse sull'Espresso nel 1997. "Chi per mestiere studia e riflette e collega dati e ne scrive fa benissimo a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della società civile"

È morto nella notte lo scrittore e giornalista Alberto Arbasino, storico collaboratore di Repubblica e L'Espresso. Tra i protagonisti del Gruppo 63, aveva da poco compiuto 90 anni. Ripubblichiamo qui un suo storico articolo uscito sul nostro giornale l'8 maggio 1997 sul ruolo degli intellettuali

È giusto che gli intellettuali dicano sempre la loro? Sì, anche a nome del Bar Sport

Caro "L'Espresso",
i maneggi e i minuetti sul "ruolo dell'intellettuale" alle spalle della collettività sono spesso stati presuntuosi e molesti, nella supponenza mezzacalza. Ma a livello di "basso profitto" realistico e altruistico, le varie esperienze immagazzinate lungo i decenni di lavoro negli studi professionali e nelle frequentazioni specialistiche - onestamente - possono risultare utili per i cittadini che non hanno accumulato altrettanto "know-how". E non sono abituati (o non avevano il tempo, o non ci hanno mai pensato) a riconoscere i corsi e i ricorsi dei fenomeni che si ripresentano identici, a interpretare i nessi fra i precedenti e l'attualità, ad applicare la memoria storica, i saperi, le competenze, il principio che due più due fa quattro e le pie illusioni non fanno bingo.
 
E se questo vale o si usa - con buone accoglienze - con le indicazioni pratiche sulle cure per la depressione o la disintossicazione, i rimedi per i figli e i fiori, e i consigli circa le pizzerie con la ragazza, perché non fornire "expertises" meditate sui fenomeni politici e mentali che sembrano inauditi o insoliti, suscitano emozioni, e sono in realtà vecchie solfe già analizzate e riciclate più volte? E quindi si è già visto come sono andate a finire di solito.
L'importante - mi pare - sarà il non soccombere alle tradizionali velleità e meschinità dei letterati provinciali e dei pensatori settoriali che vedono un solo problema alla volta, si infervorano su un'unica loro "causa" senza considerare gli antecedenti e i consensi. E si scalmanano per qualche giorno (e poi più) come quelle signore di mezza età che si agitano solo contro le pellicce o per l'Irlanda o l'Irpinia, senza riguardi per le altre che promuovono iniziative per i montoni sgozzati o per i monumenti in pericolo o per Lotta continua o per l'Aids. E magari chiedono scelte molto esclusive d'azione e di assegni fra Sarajevo, i carcerati, i tumori, gli ex-tossici, l'ultima provocazione censurata dai vescovi.
 
E certo, qui, volendo, possiamo tutti proclamarci albanesi, e comportarci anche di conseguenza sparando per aria e alle parole e alla gente, per regolare vecchi conti fra bande approfittando dei torbidi, o cercando di portare qualche vantaggio a casa: come si vede nei telegiornali ogni sera. Ma al tempo del Vietnam gli americani seri si dichiaravano pro o contro l'intervento militare con una sola frase, un solo slogan. Nel contorsionismo del politicamente corretto all'italiana, invece, fiumi di parole spesso sconclusionate per non dire né sì né no, fra doppiopesismi e doppioscarpismi, «Yankee go home» e «siamo tutti kennediani», sit-in e «chi salta è...». Ma l'intervento militare italiano - in quanto albanesi - sì oppure no?
 
Fondamentale - per una buona efficacia delle nobili cause - parrebbe allora un'astensione rigorosa da rancori e dispetti personali, da pettegolezzi grulli su citazioncine avulse dal loro contesto, dalle esibizioni pubblicitarie, dai neo-bigottismi di demagogia o di regime... Soprattutto, evitare il predicozzo e la lagna, dopo aver lodato le dissacrazioni.
 
E validissimo risulterà - al contrario - un cotante riferimento ai temi di interesse civico generale e non individuale, duraturo e non episodico, approfondito e non effimero. Soprattutto, non trattare soltanto col cuore, con la laringe, coi bronchi, col fegato, con l'utero, le situazioni serie dove i dati e i fatti gravi e obiettivi e basici richiedono specialmente conoscenze giuridiche, economiche, storiche, diplomatiche, strategiche. Occorre sempre ricordarlo?

Gli integralismi e i banditismi non si risolvono con un'Avemaria o un reggae, malgrado la bella figura gratuita fra le anime belle. I fondamentalismi e i terrorismi combattono e non conciliano, anche a costo di gravissime perdite suicide: lo insegna la Storia, che non dànno retta ai buoni sentimenti. Sennò, basterebbe far sfoggio del nostro miglior moralismo: non costa niente, e si ottiene un bell'applauso. Dunque, chi per mestiere studia e riflette e collega dati e ne scrive - direi - fa benissimo a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della società civile. Così come dopo una vacanza intelligente può concretamente suggerire il tale formaggio o il tale panorama. E così magari esprime il punto di vista delle più biasimate categorie sociali, la portinaia e la pescivendola? Ma proprio il già stimato e poi snobbato Louis Althusser spiegava che ogni scrittore serio funziona "anche" come portavoce di un qualche gruppo sociale che non ha voce propria. Senza escludere né la "signora mia" né il Bar Sport. Categorie, oltre tutto, che non hanno facili accessi con la scrittura e i media.
 
E dunque, perché non agevolarne le "prese di coscienza", e rappresentarne magari le opinioni (elettorali, poi, alla fine) così come si forniscono gli indirizzi utili ai mercatini dell'usato? Oltre tutto, quando si è ricevuto parecchio dal proprio Paese, e lo si trova indisposto o incerto, diventa un vero dovere pubblico restituirgli non trasgressioni o moralette, ma un pochino di buon senso civico.

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