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Cultura
settembre, 2020

Arundhati Roy: «Il virus ha costretto l'India a guardare in faccia violenze e povertà»

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La questione del Kashmir, la miseria che affligge milioni di persone negati, la necessità di cambiare anche la lingua per raccontare meglio gli abusi del potere. La scrittrice e attivista indiana torna ad alzare la voce contro i nazionalismi

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il primo giorno di monsoni, Arundhati Roy è nella sua casa di Delhi. Da lì vive, osserva e racconta l’impatto dell’epidemia sul suo Paese, l’India, con la vitalità della lingua dei suoi romanzi, e l’impegno delle parole secche e taglienti dei suoi saggi.

Nella prefazione del suo nuovo libro “Azadi” (Guanda) scrive che il Virus Libero ha «ridicolizzato le frontiere internazionali (…) costringendoci a mettere in dubbio i valori su cui abbiamo costruito le società moderne, ciò che abbiamo deciso di idolatrare e ciò che abbiamo preferito trascurare». Lo descrive «un portale per entrare in un mondo nuovo», che impone di chiederci cosa portare con noi e cosa lasciare alle spalle. Cosa raccoglie il suo Paese dall’esperienza della pandemia?
«La lezione del virus avrebbero dovuto impararla in primo luogo i governi, ma mi pare sia accaduto e stia accadendo il contrario. Non è un caso se i tre geni del ventunesimo secolo, Trump, Bolsonaro e Modi, siano a capo dei paesi col maggior numero di contagi. In India il Primo Ministro ha annunciato il blocco del Paese con quattro ore di preavviso. Quello che è successo dopo è riassunto in scene apocalittiche. Città impreparate, milioni di persone senza riparo, né cibo né mezzi di trasporto. Lavoratori in cammino, a piedi, aggrappati ai camion cercando di tornare a casa, forse portatori di contagio. Distanziamento fisico inattuabile. Pensi solo alla baraccopoli di Dharavi, un milione di persone in due chilometri quadrati. Non è difficile immaginare le condizioni igieniche. Il virus in India ha aggravato le disuguaglianze. In questo senso impone domande e sguardo. Non è più possibile fingere di non vedere ingiustizie a lungo ignorate. A mesi di distanza, l’economia è al collasso, e con questo dobbiamo necessariamente fare i conti, in fretta».
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Il lockdown ha illuminato le aree nascoste. Mentre i benestanti si rifugiavano nelle residenze sorvegliate, scrive, le megalopoli hanno espulso i lavoratori immigrati come scorie indesiderate.
«L’isolamento ha avuto la doppia conseguenza di compromettere le ondate di proteste in atto nel Paese e far emergere le contraddizioni dell’economia indiana. Prima del blocco l’India era già in ginocchio a causa della demonetizzazione di Modi, la disoccupazione era ai massimi da 45 anni (nel 2016 il premier Modi annunciò a sorpresa il ritiro di tutte le banconote da 500 e 1.000 rupie, con la giustificazione della lotta agli evasori, e al terrorismo. Le banconote mandate rappresentavano l’80 per cento della moneta circolante nel Paese, ndr). Gli economisti hanno definito la decisione di Modi di demonetizzare la valuta come “sparare alle gomme di un’automobile in movimento” il blocco da Covid ha avuto l’effetto di aver rimosso definitivamente quelle gomme e i lavoratori vivono nel terrore di morire di fame».

Le fratture della società indiana, l’esasperazione delle disuguaglianze sociali sono uno dei fuochi dei suoi saggi. Parla dell’India come di un Paese in cui è un crimine appartenere a una minoranza, difendere i vulnerabili diventa sinonimo di sedizione. In cui è un crimine essere poveri.
«Un tempo l’India aveva una tradizione intellettuale molto forte, fondamentalmente di sinistra, se guarda al cinema di Bollywood tra gli anni Sessanta e Ottanta c’era grande spazio per la narrazione dei più deboli. Tutti i grandi eroi venivano dai bassifondi, erano leader sindacali, venivano dai villaggi. Molte cose sono cambiate dopo gli anni Novanta, dopo la caduta dell’Unione Sovietica. L’India si è allineata all’ipercapitalismo, i poveri sono scomparsi dai racconti popolari e dall’immaginario del Paese. L’aspirazione era il consumo, i poveri non rientravano nella narrazione del Paese in crescita e sono stati rimossi. Così quando Modi ha annunciato il blocco per il virus, invitando la gente a uscire sui balconi a suonare, il Paese ha cominciato a vedere i suoi poveri. In India il punto non è se hai o meno il balcone ma se hai o meno una casa, in quante famiglie si vive in una stanza, quanti milioni vivono nei bassifondi. L’India è già una società basata sull’apartheid di casta, sarà sempre più una società basata sull’apartheid di classe. Ci sarà una classe capace di volare e intoccabile e una che cammina, separate per sempre. Le classi lavoratrici, i poveri, saranno sempre più isolate, e gli altri, i privilegiati, cercheranno di ridurre al minimo l’interazione con loro».

La minoranza dei musulmani indiani conta 200 milioni di cittadini, prima del lockdown a febbraio le proteste organizzate a Delhi e in altre città dell’India contro la nuova legge che discrimina i musulmani sono state sedate nel sangue. Almeno 30 i morti e duecenti i feriti.
«Gli attivisti continuano a vivere nel terrore di essere arrestati in massa. Il partito di Modi è organizzato, ha ramificazioni, uomini e mezzi ovunque. Hanno lo Stato in ostaggio.Le proteste, a febbraio, hanno coinciso con la diffusione dell’epidemia. E il partito di Modi ha preso la palla al balzo identificando i musulmani come untori. Le persone hanno cominciato a temere i musulmani e il virus. È un’ulteriore conseguenza dell’epidemia. Quel movimento pacifico di protesta non si è arreso ma di certo è fortemente arretrato. E può succedere di tutto, può succedere che si ripresentino fantasmi della storia, perché l’economia è al collasso e molti hanno bisogno di un nemico su cui sfogarsi. È come un’esplosione, ma congelata, tutti i pezzi sono ancora in aria e nessuno sa dove cadranno».

In una recente intervista con “Deutsche Welle” lei ha detto che la dilagante islamofobia usa un linguaggio da “genocidio” paragonando le condizioni dei musulmani in India alla Germania, quando i nazisti descrissero gli ebrei, cavalcando la paura del tifo e del colera, come “agenti patogeni”.
«L’esasperazione da virus e il timore dei contagi hanno acuito l’islamofobia con campagne mediatiche inquietanti, basti pensare all’hastag #coronajihad, e ai toni da stato di sorveglianza che sono diventati allarmanti. L’epidemia è stata un’ulteriore leva per il partito di Modi. Hanno iniziato a sostenere pubblicamente che i musulmani fossero portatori di contagio e mostrare linciaggi di musulmani su ogni social network e televisione. Ai musulmani è stato vietato di entrare in molti quartieri e fare diversi lavori, gli autisti e gli addetti ai mercati di frutta e verdura. Ecco perché cerco paragoni storici e penso al Ruanda e alla Germania nazista. Funziona sempre allo stesso modo, con gli stessi passaggi. La prima regola è: disumanizzare una comunità attraverso la lingua che usi per descriverla, diffondere notizie false, come i musulmani che avrebbero sputato sulla verdura prima di venderla. Estrometterli dall’economia e farli sentire e percepire dagli altri come corpi sociali estranei e lesivi per la comunità. La lingua diffonde la paura, la paura crea bisogno di essere protetti e tante cose vengono ammesse, giustificate, come i campi di detenzione. E queste modalità non riguardano solo i musulmani. Nello stato dell’Assam due milioni di abitanti vorrebbero essere cittadini indiani ma hanno scoperto che i loro nomi non sono inclusi nel Registro Nazionale di Cittadinanza e corrono il rischio di essere dichiarati apolidi. Invece nella valle del Kashmir sette milioni di persone che non vogliono essere cittadini indiani, e si battono da decenni per il diritto all’autodeterminazione, sono isolati da un assedio digitale e da un’occupazione militare».

Lei scrive che «ciò che l’India ha fatto in Kashmir negli ultimi trent’anni è imperdonabile». E descrive la valle come punteggiata da una rete di piccole Abu Ghraib. Sembra che anche per il Kashmir la storia non riesca ad insegnare e far comprendere che costringere milioni di persone nei ghetti senza elettricità e acqua e con la paura costante di essere deportati e imprigionati, faccia crescere generazioni esposte alla radicalizzazione. È la necessità di un capro espiatorio un automatismo dei governi che generano i propri nemici del futuro?
«In Kashmir è così. Si stima che settantamila persone tra civili, militanti armati e forze di sicurezza, siano state uccise nel conflitto, e decina di migliaia siano scomparse. È passato un anno dal 5 agosto 2019, data in cui è cambiato lo stato del Kashimir (il governo indiano ha revocato lo statuto speciale del Kashmir, unico stato della federazione indiana a maggioranza musulmana, abolendo la disposizione costituzionale che permetteva allo stato di legiferare autonomamente, ndr) decine di migliaia di persone sono detenute, le altre vivono senza Internet, dunque senza accesso col mondo esterno. È stata messa in atto una chirurgica brutalizzazione del nemico, attraverso un linguaggio che disumanizza le persone. E gli altri come reagiscono? Non sentono niente. Perché la disumanizzazione ha ormai invaso le coscienze di troppi».

Nel saggio “In che idioma cade la pioggia sopra città dolorose” lei scrive che il linguaggio è la cosa più privata e al tempo stesso più pubblica che esista. E lo scrive da un Paese che conta 23 lingue e duemila dialetti. La lingua è uno strumento politico, la lingua è politica. In che modo la lingua riflette il cambiamento politico del suo Paese?
«La lingua è il modo in cui le persone definiscono, comprendono l’ambiente in cui vivono. Riconoscere le parole, distinguerle, significa trasformarle in “specie indicatrici”, sono come le piante che annunciano le calamità e ci guidano verso ciò che verrà domani. Nel ’98 in India salì al potere un governo nazionalista indù, la prima iniziativa di quel governo guidato dal BJP (Bharativa Janata Party, il Partito del Popolo Indiano, ndr) fu condurre una serie di test nucleari che sono stati il segno, l’indicatore appunto, di qualcosa che sarebbe cambiato per sempre. Il modo in cui quei testi sono stati raccontati, in cui è stata raccontata la possibilità di una guerra atomica, ha cambiato il Paese. Quei test hanno amplificato le fratture della società indiana, sdoganato una lingua di odio».

«Cose che sarebbe impensato dire in pubblico divennero accettabili», scrive. Qualcosa che ha cambiato il linguaggio di un intero Paese.
«Sì, e il modo in cui immaginava sé stesso. L’orgoglio nazionalista si esprime sulla base del linguaggio bellico, dell’esaltazione della violenza. “La bomba è l’India, l’India è la bomba”. Un orgoglio virile. Ripenso al primo saggio politico che scrissi in quel periodo, “La fine delle illusioni”. Cambiò il Paese e cambiò la mia lingua. A leggerlo oggi c’era già tutto. Dicevano: “Questi non sono solo test nucleari, sono test di nazionalismo”, e chiunque si riballava era anti-nazionale e anti-indù. Prima non era permesso parlare in questo modo, ora a sdoganare questi toni è il governo di Modi. È cambiata la lingua pubblica, vuol dire che sta cambiando il modo in cui le persone si pensano».

L’India delle migliaia di dialetti e infinite tradizioni. Il paese che vive simultaneamente secoli diversi, per dirlo a parole tue. Dice dell’India che non sia «in alcun modo il posto peggiore o più pericoloso del mondo ma la distanza tra ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è diventato lo rende forse il più tragico». Che cos’è l’identità in un luogo di lingue, tempi, secoli, usi, così diversi?
«È la sfida della scrittura, la necessità di inventare un linguaggio. Qualunque sia la lingua in cui scrivi, sia inglese o hindi o urdu, devi soddisfare l’immaginazione e quando vivi in un Paese in cui si parlano così tanti dialetti diversi non puoi che farti specchio di quella società inventando un modo di scrivere. Il mio romanzo, “Il ministero della massima felicità”, per esempio, contiene numerose lingue diverse, è il mio modo di muovermi nei secoli di questo Paese».

Il saggio “Il linguaggio della letteratura” parla del rapporto tra narrativa e saggistica e del rapporto tra scrittore e lettore come un processo condiviso della costruzione del senso, fino a descrivere la letteratura come un luogo di protezione, una letteratura che offra un rifugio.
«È un rifugio per me ricevere lettere dalle carceri indiane dopo aver pubblicato un pezzo sulle condizioni dei detenuti. Non penso che narrativa e saggistica nella mia produzione siano due forze in conflitto, ritengo anzi che non siano affatto opposte, è quello che mi scrisse John Berger e che cito nel libro: «La narrativa e la saggistica l’accompagnano in giro per il mondo, esattamente come le sue gambe». E continuo a camminare, così quando qualcuno mi chiede «come ricevi riscontri per il tuo lavoro?» rispondo: «Vado al semaforo, perché lì c’è una connessione immediata tra ciò che scrivo e come e dove va il mondo». La finzione, invece, è per me un universo in cui vivono molte creature diverse, quelle che mi somigliano e quelle che nella realtà mi sarebbero avversarie. Sta a me non renderle ridicole, o stupide, ma costruire un mondo che includa persone amorevoli e persone che odieresti».

Cos’è per lei la paura?
«La paura implica una forma di intelligenza. Smentisco tutti quelli che mi descrivono come una donna coraggiosa e senza paura. Faccio quel che faccio e mi espongo sapendo di avere paura. Di recente un diplomatico mi ha detto: «Sei fortunata a non vivere in Cina, lì saresti in prigione». Gli ho detto: «Il motivo per cui non sono in prigione è che le persone come te ancora possono dire frasi così guardando me e non prestando attenzione alle migliaia di persone che davvero sono in prigione in India». Io servo da decorazione, sono un ornamento da sistemare sul caminetto: «Se lei è libera vuol dire che in India c’è ancora democrazia». Invece, ogni istituzione sta lentamente crollando, i media sono compromessi, i tribunali sono compromessi, così come la polizia e l’esercito. Quindi, ecco, penso che ho paura, sì. E che solo le persone stupide non ne abbiano».

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