L’ingrediente più gradevole di questa edizione del talent show culinario è il siparietto continuo tra i giudici, che finalmente hanno smesso di prendersi troppo sul serio

Masterchef e il gusto dell'avanspettacolo in cucina

Detto che in questi mesi maledetti i ricordi dei sapori da ristorante si affievoliscono poco a poco, e la quantità di farina utilizzata per le panificazioni casalinghe ha raggiunto pesi da record, questa decima edizione di Masterchef più che puntare ancora una volta su un piacere del cibo solo supposto ha deciso di dare spago ad altro. E il risultato è una goduria diffusa. Insomma, l’entusiasmo papillare verso il soffritto di interiora alla birra con lumache di mare e uovo centenario è oggettivamente difficile da scatenare in maniera spontanea, quindi tanto vale piantarla di seguire i concorrenti e dedicarsi definitivamente all’intrattenimento regalato dai tre giudici.

C’è stato un periodo non troppo lontano in cui alle scuole medie andavano fortissimo i filoni di barzellette della serie c’è un inglese un bolognese e un partenopeo. In cui i caratteri erano tagliati un po’ con l’accetta ma alla fine facevano ridere. Ecco, in estrema sintesi, screma di qua e screma di là, scegli, miscela e sala al punto giusto, la produzione è riuscita a mettere in tavola il tris perfetto della leggerezza da grembiule.

Dopo un anno di rodaggio, gli chef protagonisti hanno cesellato i loro copioni calandosi ognuno nel proprio ruolo in cui ormai si sentono finalmente comodi e tra un’alga spirulina e una noce di macadamia hanno smesso di prendersi sul serio creando un effetto avanspettacolo che funziona a prescindere.

Scomodando il gargantuesco Totò Truffa, Barbieri, Locatelli e Cannavacciuolo si alternano nei ruoli di spalla e protagonista nel corso di ogni puntata cercando di vendere un caviale di lumaca come fosse una Fontana di Trevi al primo Decio Cavallo che passa e mentre i concorrenti si arrabattano tra sifoni e skill test i nostri regalano siparietti di umorismo facile facile che però hanno il merito di sdrammatizzare una seriosità culinaria che altrimenti farebbe solo sorridere.

Poi per carità, ci sono soldi e fama in palio, ma alla fine dopo una vita di cloche alzate sugli ingredienti misteriosi l’unica alternativa per farci cascare ancora uno spettatore non poteva che essere quella gag.

Così il burbero chic, l’omone buono e solidale e il raffinato dal cuore d’oro si stuzzicano, si provocano, si scambiano le parti, giocano sui doppi sensi, dalla pompia alla figata, e soprattutto sui loro personaggi sgonfiando quel fastidioso alone di intoccabile genialità che ha avvolto gli chef dell’ultimo decennio e mano a mano che si danno meno arie gli si vuole un po’ più bene. Perché alla fine, come recita il saggio Locatelli, «Tu vali quanto vale il tuo ultimo piatto». E tra la medusa e l’avanspettacolo non c’è gara. 

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